Tre spunti per riesaminare la corporate governance
I temi del governo societario dovrebbero essere trattati in relazione a quelli del diritto societario, finanziario, assicurativo, privato, penale. Sarebbe inoltre necessario distinguere il processo dal merito, mettendo l’accento sul primo. Infine, servirebbe ricordare che l’accumulazione di regole non è quasi mai positiva
Getty ImagesPuò sembrare paradossale per chi da molti anni si occupa a vario titolo, sia a livello di riflessione teorica che di concretissimi casi, di corporate governance, affermare che ho sempre trovato e trovo tutt’ora questa locuzione leggermente fastidiosa per la sua imprecisione. Non vorrei essere tacciato di formalismo, ma mi pare evidente che i confini della nozione sono indefiniti. Una possibile definizione di ampia condivisione è, ad esempio, quella che troviamo nel “Glossario” disponibile sul sito di Borsa Italiana (ora Euronext Milan), secondo la quale la corporate governance è l’”insieme di strumenti, regole e meccanismi preordinati alla migliore realizzazione del processo decisionale di un’impresa nell’interesse delle diverse categorie di soggetti che sono interessati alla vita societaria”. Una simile spiegazione comprende però pressoché qualsiasi regola del diritto societario e dei mercati finanziari: le norme sul recesso, sui patti parasociali, sull’opa, sul prospetto, o sui limiti all’emissione di titoli di debito non incidono forse, almeno indirettamente, sui processi decisionali interni di un emittente? Lo stesso vale però per definizioni apparentemente più restrittive, come limitandosi alle regole relative alla composizione e funzionamento degli organi societari. Anche qui, naturalmente, difficile tracciare frontiere precise.
Si potrebbe replicare che, appunto, non occorre fossilizzarsi su questioni meramente definitorie, e che almeno nel linguaggio comune l’espressione è sufficientemente comprensibile per delimitare in modo utile un campo di indagine e di attività pratica. Io stesso, naturalmente, la utilizzo serenamente in questa accezione poco rigorosa. Ma per il giurista, e in verità per qualsiasi discorso rigoroso, le definizioni sono importanti, non sono solo un’etichetta tassonomica, ma servono anche il compito di circoscrivere obiettivi, strumenti, vincoli. Senza quindi una chiara divisione della materia, la materia rischia di essere evanescente, e la ricerca e i progetti di riforma partono zavorrati da una certa confusione. In un lavoro di ripensamento del tema, allora, un primo compito sarebbe quello di chiedersi se la corporate governance possa veramente considerarsi un settore caratterizzato da una certa autonomia, o non sia piuttosto un vago riferimento a un sottoinsieme di problemi che, tuttavia, richiedono – nelle diverse prospettive da cui possono essere affrontati: giuridica, aziendalistica, finanziaria, storica, ma se si vuole anche sociologica e psicologica – conoscenze e competenze ben più ampie per essere inquadrati, esaminati e risolti in modo corretto. La specializzazione è utile e inevitabile, ma diffido dell’esperto della “sola” corporate governance un po’ come diffiderei di un odontoiatra esperto solo nei molari superiori.
Ciò a mio avviso emerge anche ponendo mente, scendendo su un piano più applicativo, alla questione di quali siano i grandi filoni della – ecco che commetto lo stesso peccato che ho appena denunciato – corporate governance attuale. Pensiamo ai due che mi paiono di maggiore momento: l’attenzione alla sostenibilità e in generale ai fattori ESG, e quella al ruolo, rischi e opportunità connessi con le nuove tecnologie, e in particolare con quel particolare sviluppo tecnico (pure altrettanto vagamente e spesso inconsapevolmente definito) che è l’intelligenza artificiale. Anche in questo caso, infatti, questi fenomeni possono essere compresi e valutati appieno solo tenendo conto di un insieme molto ampio di regole, questioni di business, evoluzioni socio-culturali e politiche. Basti pensare al ruolo dei social media nella diffusione dell’informazione (e della disinformazione) finanziaria e per il coordinamento di magari piccoli investitori che collettivamente però possono incidere sulle vicende societarie (GameStop docet), o al ruolo degli smart contracts nel regolare i rapporti coi clienti, o a guardare alla sostenibilità nel board senza tener conto dell’evoluzione nella disciplina della cosiddetta finanza sostenibile anche quando pare riguardare solo le condotte degli intermediari, ovvero a regole di sapore e origine antiche, come quella della responsabilità civile dell’impresa connessa al rispetto dell’ambiente, che oggi in Italia ha anche un aggancio costituzionale e naturalmente retroagisce sui doveri sia organizzativi che gestionali degli organi di governo societario.
Nessuna governance è un’isola a sé stante
Il mio non è, o almeno non vuole essere, un banale richiamo a un approccio olistico alla materia, ma un vero invito – per usare un parolone – culturale a espandere gli orizzonti, pur senza diluire i saperi tecnici specifici dei diversi settori. Per limitarsi a un esempio in quello del diritto, che è quello che mi appartiene, ciò significa che va evitato l’errore di (cercare di) isolare, o almeno farlo con troppa rigidità, i temi del governo societario da quelli del diritto societario, finanziario, assicurativo, privato, penale e così via. Conoscere alla perfezione la disciplina Consob sulle OPC rischia di servire a poco, sia nella teoria che nella pratica, se non si comprendono le regole del diritto dei contratti o i principi di quello amministrativo.
Vi è poi un’altra linea di tendenza connessa allo sviluppo tecnologico, conturbante e di portata generale, che va menzionata nel dibattito sul governo societario. Secondo una impostazione proposta da un giurista inglese, William Lucy, già celebre nonostante sia stata formulata recentemente ([1]), un tratto caratterizzante delle nuove tecnologie – semplifico – è che rendono possibile una forma di regolamentazione nuova: anziché fornire un comando il cui rispetto è poi rimesso alla decisione o almeno alla diligenza del soggetto regolato, essa consente meglio di prima di rendere “fisicamente” impossibili certe condotte. L’esempio più facile ma efficace è il limite di velocità: posso regolarlo con una norma del codice della strada e con i tradizionali sistemi di enforcement, aiutati ma non rivoluzionati dall’innovazione tecnica; ovvero posso produrre automobili che non superano, non possono superare tale limite. Si immagini il discorso traslato alle attività informatiche e alla IA. Questa seconda tecnica risulta efficacissima ed economica, ma pone problemi giganti sulla stessa nozione di diritto se non di democrazia: può essere utilizzata da soggetti privati più o meno coordinati e guidati dall’autorità, limita il libero arbitrio, può far atrofizzare la capacità morale e pratica di seguire regole di convivenza conosciute e condivise, che anzi possono essere “nascoste”. È giusto chiedersi se anche la nostra materia possa essere soggetta a questa evoluzione che, secondo lo studioso citato, può addirittura condurre alla morte del diritto per come lo ha inteso l’era moderna. Qui mi limito a osservare che sicuramente questo nuovo paradigma avrà delle ricadute anche nel nostro settore, ma che la sua stessa complessità, la difficoltà di regolare ex ante e stabilire limiti, quella stessa difficoltà che impone di utilizzare standards per disciplinare l’azione dei gestori di risorse altrui, rendono meno probabile, e meno facile, questa deriva.
Processo vs merito
Un’ulteriore distinzione che mi pare fruttuosa è quella tra regole di processo e regole di sostanza. Il discorso sarebbe naturalmente molto complesso e lo spazio che ho a disposizione non basta, ma lo accenno in modo rozzo. Un conto è preoccuparsi di un “processo” decisionale integro, efficiente, efficace ed equo con norme e prassi che ne definiscono il metodo, ivi incluse le caratteristiche dei decisori. Altro è attribuire a quel processo un obiettivo sostanziale, una scelta che evidentemente ha – quantomeno – una più precisa connotazione “valoriale”, politica o di politica del diritto. Attenzione: non sto dicendo che il secondo approccio, quantomeno nell’ambito della soft law volontaria, sia sbagliata e la corporate governance dovrebbe evitarlo. Sto solo dicendo che occorre consapevolezza sulla distinzione tra i due piani. Due esempi possono chiarire.
Prevedere che nel cda debbano sedere amministratori indipendenti è una regola di processo; affidare al consiglio il compito di perseguire il successo sostenibile una regola di sostanza. Bene fa il Codice di Corporate Governance italiano a dare indicazioni – per quanto, a mio avviso, in sé non particolarmente mordenti sul piano giuridico – sul secondo aspetto, così come può essere apprezzata l’analoga scelta, fatta ormai molti anni addietro, di alcune leggi societarie (ad esempio la §172 del Companies Act inglese o alcuni “Constituency Statutes” nordamericani), ma si deve notare la saggezza dell’impianto originario del codice civile italiano, che si astiene da simili qualificazioni, lasciando alle dinamiche e agli strumenti endo- ed eso-societari, dei quali disciplina il funzionamento, la internalizzazione e il bilanciamento, nella funzione obiettivo degli amministratori, degli interessi dei diversi stakeholders. Un approccio, quest’ultimo, certamente meno contingente, più flessibile e neutrale.
Altro esempio. Nella disciplina delle OPC, alcuni ordinamenti, come quello americano, distinguono nettamente il piano delle cautele procedurali, da quello della intrinseca fairness della singola operazione. Se le prime sono – veramente e rigorosamente – rispettate, l’autorità giudiziaria o quella amministrativa non possono (salvo forse casi estremi e molto particolari di assoluta irrazionalità economica) entrare nel merito delle scelte gestionali. Non è proprio così nel nostro diritto interno ed unionale, dove, come noto, il confine tra correttezza procedurale e sostanziale delle operazioni con soggetti correlati è decisamente più sfumato, e non è probabilmente da escludere un margine delle autorità per criticare anche solo nel merito decisioni pur assunte nel rispetto delle regole procedurali.
Pur senza voler affermare una presunta necessaria neutralità delle regole rispetto al perseguimento di valori sostanziali, io credo preferibile che il governo societario si appunti soprattutto su come le decisioni sono prese, e meno su quali decisioni sono prese. Come minimo, occorre distinguere i piani e proteggere la discrezionalità gestionale e la certezza del diritto.
Ultimo spunto. Se vi è una tendenza preoccupante del dibattito sulla corporate governance è a sua ipertrofia, la difficilmente evitabile tendenza all’accumulazione di regole, di strati, di nuove imposizioni. Ciò deriva anche da fenomeni sociali ben studiati da chi si occupa di come le regole di sviluppano: ogni nuovo comitato, gruppo di lavoro, legislatore, regolatore ha la tendenza – in certo modo anche per giustificare la propria esistenza e lasciare un segno – ad aggiungere, precisare, specificare, disciplinare ulteriori fenomeni e casi. Ovviamente questo è in buona parte la fisiologica conseguenza dell’accumularsi dell’esperienza e dell’evolversi della realtà, della necessità di normare situazioni nuove o introdurre approcci nuovi a vecchie questioni. Senza scomodare né il principio di parsimonia di Occam né quelli architettonici di van der Rohe, deve però esistere un limite, deve comprendersi che una buona corporate governance è anche snella, chiara, sintetica, per princìpi; ha il coraggio togliere anziché di aggiungere, anche capitalizzando sull’evoluzione delle prassi e della sensibilità, di delegare al giudizio ex post, all’azione di enforcement pubblica e privata l’attuazione delle regole. In questo merita un plauso la versione del 2020 del nostro Codice di autoregolamentazione, che certamente ha semplificato. Ascrivo a questa prospettiva anche l’esigenza di regole sì prescrittive, ma ove possibili flessibili per adattarsi alle poliedriche manifestazioni della realtà: o, per dirlo più concretamente, non mortificare l’autonomia privata entro un quadro di limiti accettabili.
Non ho forse né l’ambizione né la capacità di ri-pensare la corporate governance. Quanto precede contiene al più tre spunti per pensare a questa materia. Li sintetizzo: primo, sul piano metodologico, ricordare parafrasando il poeta che “no corporate governance is an island onto itself”; secondo, distinguere processo da merito, mettendo l’accento sul primo; terzo, essere consapevoli che a volte un po’ di dieta fa funzionare meglio il corpo e la mente.
([1]) W. Lucy, The Death of Law: Another Obituary, in Cambridge Law Journal, 2022, p. 109 ss.