Statalismo o liberismo? L’optimum sta nel mezzo
Il dibattito fra i sostenitori delle due concezioni politico/economiche si accende periodicamente. Entrambe presentano vantaggi e svantaggi: ecco cosa ne pensa un esperto di Nedcommunity, il professore Giovanni Fiori
Il passaggio di testimone dal governo Conte all’esecutivo Draghi ha fatto parlare più di una volta di un abbandono dell’approccio interventista dello Stato di stampo grillino a vantaggio di un maggiore liberismo. Alla luce di come continuano ad essere gestiti dossier del calibro di Mps, Ilva, Aspi, Alitalia quanto questa affermazione è vera e quanto invece è priva di fondamento? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Fiori, socio di Nedcommunity e primo presidente del chapter di Roma e del Lazio dell’associazione, nonché professore ordinario di Economia aziendale presso l’Università Luiss Guido Carli.
“Innanzitutto mi sembra doverosa una premessa generale: il nostro Paese si caratterizza da sempre per un approccio alle vicende economiche (e non soltanto politiche), ideologico e molto raramente equilibrato. E così possiamo notare come nell’arco di pochi decenni si sia passati dal furore statalista a un’ideologia liberista senza freni. Eppure tutti gli economisti più importanti hanno sempre sostenuto che l’economia funziona davvero e bene quando si riesce a realizzare un sostanziale equilibrio fra il ruolo giocato dallo Stato nella sua veste di garante dell’interesse generale e di investitore nei settori trascurati dai privati e quello svolto dal mercato con la sua ricerca del profitto. In Italia, invece, assistiamo troppo spesso ad una grottesca contrapposizione fra “Talebani dello statalismo”, per i quali “è sempre meglio lo Stato”, e “Talebani del liberismo”, per i quali lo Stato è una sorta di demonio. Tutto ciò per la mancanza di un adeguato e puntuale approfondimento scientifico sul tema che sia scevro da pregiudizi di carattere ideologico. A entrambe le categorie allora porrei due semplici domande: se non ci fossero gli Stati come avrebbe fatto il mercato a reagire alla crisi finanziaria del 2008 e a quella attuale scatenata dalla pandemia? la storia non è forse piena di esempi di come uno statalismo portato alle estreme conseguenze abbia provocato storture, sprechi ed inefficienze?”.
Quindi per rispondere alla domanda?
“Per rispondere alla domanda non vedo un cambio di passo fra governo Draghi e governo precedente che, di certo, mostrava un approccio più spostato verso lo statalismo. Draghi sta proseguendo in una politica di ragionevolezza e pragmatismo lasciando al mercato alcuni ambiti e portando lo Stato in servizi e attività di interesse pubblico. Si pensi all’ingresso di Cdp in Autostrade dopo l’annosa vicenda del crollo del Ponte Morandi o alla gestione della vicenda Alitalia. Il problema è che in Italia per troppo tempo ‘pubblico’ ha fatto rima con cattiva gestione. Il pubblico ben gestito non solo non deve spaventare, ma può diventare una valore aggiunto per l’economia. Ed infatti anche nella superliberali società anglosassoni spesso l’intervento statale non provoca reazioni scandalizzate, anzi: si pensi alla recente nazionalizzazione delle ferrovie Northern Rail in Gran Bretagna che non ha di certo provocato una levata di scudi. O alla massiccia nazionalizzazione delle banche americane post crisi Lehman Brothers. Del resto lasciare fare totalmente al mercato, quando si parla di infrastrutture pubbliche, può essere un problema: si pensi a quanto siano degradati gli aeroporti e le strade negli Usa. Non a caso il presidente Biden ha varato un maxi piano di investimenti che ricorda molto il New Deal di roosveltiana memoria”.
Il sistema bancario italiano sta attraversando una fase molto delicata che dovrebbe comportare l’avvio di una stagione di aggregazioni. Mps si trova al centro di questa vicenda. Fino a qualche mese fa si parlava di presenza definitiva del Ministero dell’Economia nell’azionariato ma oggi tutto è cambiato con la notizia della privatizzazione. Secondo lei lasciar fare al mercato rappresenta la soluzione migliore in questo caso o si rischia di perdere altri pezzi del nostro sistema produttivo/finanziario a vantaggio di economie straniere?
“In Francia e Germania Stato e privati collaborano sia nell’industria sia nel credito. Inoltre le grandi imprese private possono contare su un sostegno massiccio del governo di turno quando vanno all’estero. Nella mia esperienza cinese sono sempre rimasto piacevolmente sorpreso di come le delegazioni politiche straniere arrivassero in visita con un gran numero di imprenditori e portassero a casa un numero eccezionale di contratti: questa è la dimostrazione di come la giusta collaborazione fra pubblico e privato sia in grado di portare vantaggi a tutti. Per andare a Mps, che in questo momento rappresenta soprattutto una buona rete commerciale (mantenuta validamente, e quasi eroicamente, dal management nonostante le vicissitudini della banca), la vicenda si intreccia anche con la necessità di aggregare molte realtà di medie dimensioni perché si arrivi a un paio di grandi gruppi bancari in grado di competere a livello europeo. Se non riusciamo a realizzare quella collaborazione l’obiettivo della creazione di campioni nazionali sarà inevitabilmente mancato con il risultato di lasciare realtà anche importanti in balia delle mire predatorie di economie più organizzate della nostra. Invito ad abbandonare gli approcci ideologici per far proprio un atteggiamento più pragmatico in nome dell’interesse nazionale”.
Gli Stati francese, britannico e tedesco, non hanno avuto remore e entrare nel capitale di aziende strategiche. Roma dovrebbe seguirne l’esempio?
“Dipende. Se lo Stato entra in questi settori veramente strategici per l’economia nazionale e decide di adottare il ruolo di un’azionista in grado di conferire competenze e sostegno concreto, oltreché adeguate risorse, allora la risposta non può che essere positiva. Se invece ha intenzione di adottare un approccio clientelare perpetuando logiche ormai desuete e dannose per l’interesse degli azionisti e di quello pubblico, allora meglio evitare. Il vero tema è questo: dobbiamo cambiare atteggiamento culturale e capire che l’impresa pubblica deve essere gestita con le logiche dell’efficienza e del valore, come già avviene in casi virtuosi quali Enel, Eni ed altre”.
Crede che il Next Generation Eu rappresenti un provvedimento che di fatto rafforza e conferma un sistema neoliberista oppure è la dimostrazione di una crescente centralità dello Stato (in questo caso dell’istituzione europea) nell’economia continentale?
“Credo rappresenti una grande opportunità per il Paese per centrare gli obiettivi che non è riuscito a raggiungere negli ultimi venti anni. Non mi interessa e non mi appassiona chiedermi se questa grande occasione sia di stampo statalista o liberista: come ho detto è arrivato il momento di essere pragmatici preferendo pormi la domanda se questa opportunità sarà in grado di portare vantaggi al Paese oppure no. E la risposta non può che essere si: è la più grande occasione di crescita che abbiamo dal dopoguerra. Certamente dobbiamo essere consapevoli che è necessario realizzare quanto ci chiede l’Ue, in primo luogo le riforme: pubblica amministrazione più efficiente, giustizia più veloce. Questo è il tema dei temi. Ci sono regioni del nostro Paese che non sono riuscite a spendere, e ciò avviene da anni, nemmeno i finanziamenti europei pre-Covid. Per questo plaudo all’iniziativa del presidente del Consiglio di accentrare la gestione del Pnrr”.