Pmi: fenomeno europeo
Le aziende piccole e medie non sono una caratteristica esclusiva del tessuto produttivo italiano ma rappresentano lo zoccolo duro della produzione del Vecchio Continente. Costituiscono infatti il 99% delle imprese dell'UE e forniscono due terzi dei posti di lavoro nel settore privato. Un motivo in più per promuove al loro interno il buon governo societario. Il punto di vista dell’esperta Nedcommunity
Maria Pierdicchi, past president di NedcommunityUna certa vulgata giornalistica molto diffusa sembra diffondere l’immagine di un’Italia come “patria” delle Pmi contro un’Europa nella quale dominano esclusivamente i colossi imprenditoriali. Nella realtà, snocciolando i dati ufficiali dell’Unione europea, emerge una realtà piuttosto differente: le piccole, medie e microimprese (PMI) costituiscono il 99% delle imprese dell’UE (il 99,9% in Italia) e rappresentano, di conseguenza, un patrimonio insostituibile di imprenditorialità e spirito di iniziativa. Inoltre, sono un “serbatoio” occupazionale di strategica importanza considerato che vi lavorano qualcosa come 100 milioni di concittadini dell’Unione, ovvero i due terzi degli impiegati del settore privato.
Facendo appello ai numeri del “Rapporto annuale sulle performance delle PMI europee” del 2023, si scopre che le Pmi europee sono 24 milioni, 3,4 delle quali in Italia. Esse producono più della metà del valore aggiunto del settore commerciale non finanziario dell’Unione europea (in Italia circa il 63%, pari a 591,4 miliardi di euro) e rappresentano la fucina europea dell’innovazione. Non a caso, anche nell’ambito degli investimenti che hanno fatto seguito alla crisi pandemica, si è deciso attraverso il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (RRF), che finanzia i Piani nazionali di Ripresa e Resilienza, di sostenerle con investimenti senza precedenti di importo pari a fino a 45 miliardi di euro, oltre a un totale di 65 miliardi di euro stanziati nell’ambito dei fondi della politica di coesione. Il tutto nella consapevolezza del valore strategico di queste imprese anche nell’ambito di una crescita davvero sostenibile del Vecchio Continente. Un tema centrale, spesso non adeguatamente approfondito, riguarda però un altro aspetto: quello del governo societario. Ne abbiamo parlato con la past president di Necommunity, Maria Pierdicchi, board member di ecoDa, l’associazione europea che rappresenta le principali organizzazioni nazionali che riuniscono i consiglieri di amministrazione.
Che sfide devono affrontare le Pmi europee a livello di governance?
“Bisogna considerare che le Pmi in Europa hanno dimensioni e caratteristiche diverse nei vari paesi e come tali presentano evoluzioni di governance non sempre omogenee. Le imprese quotate hanno generalmente già aperto ai consiglieri indipendenti e spesso presentano strutture di governance già evolute, anche in presenza di azionisti/imprenditori in maggioranza. Questo grazie anche allo stimolo dei codici di corporate governance e dele normative nazionali ed europee. Per le società non quotate, in realtà la grande maggioranza, la sfida è quella di aprirsi a sistemi di governance che si ispirino ai codici con un certo criterio di proporzionalità e valorizzare il contributo di consiglieri indipendenti, di lavori consiliari più strutturati al fine di meglio presidiare i rischi e perseguire percorsi di crescita innovativi e con un’ottica di sostenibilità di lungo termine. Spesso gli imprenditori hanno chiaro lo scopo di impresa ma senza un robusto sistema di governo le scelte di investimento e allocazione delle risorse possono essere meno efficaci e la coerenza tra obiettivi di breve e lungo termine più difficile da mettere a terra. La presenza di consiglieri con competenze tecniche e di settore aiuta a fare scelte più informate e a muoversi con maggior efficacia nella gestione di scenari sempre più complessi e incerti. Anche la presenza di investitori istituzionali, ad esempio operatori di private equity, è un’ottima leva per rafforzare la governance, sia nel processo decisionale che nella messa a punto di strategie finanziarie e industriali che tengano conto anche di un percorso di sostenibilità oggi irrinunciabile”.
Come si stanno preparando all’appuntamento della Csrd e che impatto avrà la direttiva sulle aziende piccole e medie del nostro Paese?
“Anche se i requisiti si applicano primariamente alle quotate, credo che ogni azienda di una certa dimensione si debba porre l’obiettivo di adottare un reporting più consono ad evidenziare strategie e risultati in ambito ESG e gestione dei rischi non finanziari, anche se con la necessaria proprozionalità e gradualità già prevista. Già l’adozione della doppia materialità, sia pure con indicatori ancora parziali e non omogenei, permette di usare un’ottica nuova, che guarda alle esigenze di clienti e stakeholders in generale. In ultima analisi si tratta di adottare una nuova cultura aziendale e di incorporarla in tutti i processi aziendali. Ci sono aziende familiari che da questo punto di vista stanno facendo anche di più di altre grazie alla visione e all’impegno dei loro imprenditori. Come sempre i veri cambiamenti partono dai vertici, imprenditori e manager, che devono credere nell’importanza di essere trasparenti e coerenti sul percorso ESG che stanno facendo. Ricordiamo che molte Pmi operano in filiere di fornitura per grandi aziende e come tali hanno l’obbligo di rendicontare le loro pratiche per poter soddisfare i requisiti a cui i grandi gruppi sono soggetti. Come dire che è il business model stesso che impone una certa disciplina e internalizzazione di processi e obiettivi”.
Che ruolo possono e devono svolgere in particolare i consiglieri indipendenti in questa sfida e che differenze ci sono fra i maggiori Paesi europei in termini di loro impegno/coinvolgimento?
“Gli indipendenti hanno un ruolo di stimolo e di supervisione fondamentale, in ogni ambito aziendale. Possono supportare un processo di definizione di strategia di lungo termine tenendo conto di scenari di riferimento e di cambiamenti in atto. Stimolano il confronto con i peers e la valutazione accurata dei rischi e delle opportunità con cui l’azienda si confronta, portano esperienze e competenze diverse, se il cda ha la giusta diversità, che aiutano nel processo decisionale e nel monitoraggio della performace. Il dialogo col management permette di elaborare in modo costruttivo possibili alternative e in tal modo fornire anche un quadro di riferimento quali e quantitativo che facilita la consapevolezza di rischi e opportunità e la capacità di affrontare shock e cambiamenti con più agilità. Le decisioni collegiali hanno sempre un valore maggiore di quelle individuali, purché preparazione, responsabilità e competenze lavorino bene assieme. Non credo ci siano grosse differenze nel contributo che i ned possono dare, le differenze risiedono nei contesti culturali in cui operano, nell’apertura degli imprenditori all’ascolto e al cambiamento, nella consapevolezza che una buona governance, anche se più faticosa, rappresenta un valore competitivo per l’azienda. Contano anche le ambizioni degli imprenditori in termini di crescita, innovazione, trasformazione. Di solito le imprese che operano in contesti internazionali e più competitivi sono più consapevoli dell’importanza di contributi esterni e indipendenti, che vanno comunque scelti sulla base di esigenze specifiche ben analizzate. Quanto all’impegno penso che aziende meno strutturate richiedano impegno maggiore, anche per supportare la messa a punto di processi e regole nuove.
Quali sono i temi considerati strategici per il futuro della governance delle aziende europee sui cui ecoDa e Nedcommunity stanno lavorando con un obiettivo a medio termine?
“I temi su cui lavorano le associazioni europee di NED sono molti e vedono le diverse organizzazioni in un confronto continuo finalizzato a condividere buone pratiche e stimolare contributi utili ad una evoluzione europea che rafforzi le capacità competitive dei nostri sistemi industriali. In Europa assistiamo ad una intensa attività regolatoria che ha posto sulle aziende e il loro organi un notevole peso di responsabilità e di implementazione, di conseguenza si auspica di favorire soft law verso hard e principi rispetto a regole, anche per alleggerire il peso amministrativo di compliance che grava già e che comprende normative europee e normative locali che spesso si sovrappongono e gravano in modo eccessivo sulle aziende internazionali operanti in tante geografie. Altri temi importanti riguardano le politiche di remunerazione e i loro collegamenti con indicatori ESG di breve e di lungo termine, affinché i giusti incentivi promuovano la creazione di valore per shareholders e stakeholders. Il tema di una più accurata e articolata definizione dei criteri di indipendenza è molto sentito, anche per le diverse definizioni e criteri di verifica che oggi coesistono e possono suscitare opacità. Non trascurerei il tema dell’impegno e delle competenze oggi richiesti dai cda e di conseguenza la capacità di attrarre i talenti adeguati e di allineare i compensi a responsabilità, impegno e complessità dei compiti svolti. Diversi studi promossi anche dalle nostre associazioni evidenziano che i compensi dei cda sono rimasti indietro rispetto a quelli del management mentre sono cresciute le responsabilità e l’impegno anche in conseguenza alle crisi degli ultimi anni e ai nuovi fattori di rischio che hanno posto nuove sfide e cambiamenti radicali del modo di operare. Inoltre, il confronto tra diversi sistemi di governance è spesso al centro dell’attenzione nella valutazione dell’adeguatezza dei processi di controllo e dell’efficacia del ruolo di oversight che il cda deve assicurare, anche alla luce di nuove normative in fase di definizione che potrebbero portare ad una eccessiva responsabilizzazione dei comportamenti individuali rispetto al criterio di collegialità delle decisioni del cda. Infine, c’è molta riflessione sul ruolo che la G di governance ha nel perseguimento di strategie di sostenibilità, come fattore abilitante ma difficile da valutare e comparare rispetto alle altre dimensioni”.