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Nell’interesse di chi è governata l’impresa?

Il governo delle imprese, come si chiama in italiano la Corporate Governance, si concentra su dettagliate questioni di funzionamento del Consiglio di Amministrazione (CdA), ma sorvola sulla questione delle questioni: nell'interesse di chi è governata

di Salvatore Bragantini(*)

Il governo delle imprese, come si chiama in italiano la Corporate Governance, si concentra su dettagliate questioni di funzionamento del Consiglio di Amministrazione (CdA), ma sorvola sulla questione delle questioni: nell’interesse di chi è governata l’impresa? È questo l’elefante nella stanza, che fingiamo di non vedere.

Da tempo ormai, il principio guida per l’azione del CdA si basa sulla teoria del valore per l’azionista; anche per il Comitato sulla Corporate Governance di Borsa Italiana, esso deve perseguire “l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti in un orizzonte di medio-lungo periodo”.
È bene che almeno la ricerca del valore per l’azionista sia sottratta alla logica del breve termine, ma dietro quel principio si cela un errore di fondo: la convinzione diffusa, a lungo parsa sensata anche al sottoscritto, che l’impresa sia un oggetto inanimato, di proprietà dei soci, un “fascio di contratti” fra azionisti, lavoratori, fornitori-creditori, e clienti. Quando a tutti i contratti si sia adempiuto, si tirano le somme; ciò che resta spetta agli azionisti, definiti infatti nel dominante anglicismo residual claimants, che cercheranno di massimizzare tale residua quota.

Cosa è cambiato? 

Il mondo tuttavia è molto cambiato:
a) l’azionista non è più il residual claimant;
b) l’impresa non è un oggetto, sia pur complesso, di proprietà degli azionisti;
c) ciò pone enormi responsabilità in capo agli amministratori, che non sempre ne paiono consci.
Quella del “fascio di contratti” è una visione patrimoniale e statica; va di pari passo con l’idea  che l’impresa sia null’altro che una proprietà degli azionisti, i quali nominano il CdA perché faccia i loro interessi, nella convinzione, non si sa se più ingenua o astuta, che questi coincidano per definizione con quelli dell’impresa.
Non è così, o meglio non è sempre così; nella routine i due interessi coincidono, poi però ci sono le operazioni straordinarie, che portano spesso alla separazione, se non addirittura all’incomponibile contrasto, fra quanto conviene all’impresa e quanto conviene ai soci. Ciò a tacere, ovviamente, delle frequenti situazioni in cui alcuni azionisti, più uguali degli altri, spogliano l’impresa a proprio esclusivo vantaggio, in gergo, “appropriazioni private dei benefici del controllo”. Solo i controllanti, infatti, o chi è con loro in simbiosi, accedono a tali operazioni.
L’impresa s’è conquistata nel mondo moderno uno status ben diverso da quello degli albori, quando la limitazione delle responsabilità dei soci di capitale permise la nascita della società anonima. Oggi è essa che, investendo e innovando, dà lavoro alle persone, facendo quanto in passato fece spesso il capitale pubblico. Son finiti i tempi del lavoro dipendente a vita e dell’osservanza dei contratti, anche a costo di grandi perdite per gli azionisti. In un mondo nel quale il capitale è mobilissimo, mentre il lavoro soffre dei vincoli al trasferimento connessi alla vita delle famiglie (lingue, scuola, casa, trasporti, etc.) il capitale è coccolato, il lavoro bistrattato. Quando un’impresa è in difficoltà, gli azionisti non sono più i primi a pagare: essi negoziano con tutti, imponendo quei duri sacrifici che in passato spettavano anzitutto a loro. Così dipendenti e creditori sono spesso residual claimant quanto gli azionisti, forse di più; se non altro perché in genere privi delle possibilità di diversificare i rischi che hanno, ad esempio, gli investitori istituzionali.
L’accresciuto ruolo dell’impresa, ormai motore primo dello sviluppo economico, impone un’attenta riflessione sulla sua natura. Essa non è un ammasso di beni e contratti; anche l’attenzione agli stakeholders, pur benvenuta, la vede pur sempre come un oggetto servente rispetto a comunità locale, soci e dipendenti. L’impresa è invece, oltre certe dimensioni e tanto più se ricorre a capitali esterni, un’entità autonoma, una persona (giuridica) che svolge un ruolo chiave nella società moderna: l’espressione Corporation rende l’idea in modo plastico. Nel suo brillante libro “The Shareholder value myth”, Lynn Stout, docente alla Cornell Law School, sostiene con ampie citazioni di sentenze, specie dei Tribunali del Delaware, che gli azionisti non sono i padroni dell’impresa, ma solo i titolari di alcuni diritti; il principale è quello di nominare (su proposta del CdA uscente, si badi) il CdA entrante. Pagare o no un dividendo, e di che entità, è decisione che negli Usa prende il CdA; le possibilità per gli azionisti di chiamarlo a rispondere del proprio operato sono scarsissime.
In Europa e in Italia le cose stanno diversamente, ma bisogna superare il riflesso condizionato che rifiuta di considerare l’impresa come corpo vivente, nel timore di richiamare il corporativismo fascista. Non è fascismo vedere l’impresa come un’entità autonoma, ancorché sprovvista di una propria capacità di volere e decidere. Basti il richiamo all’art. 41 della Costituzione repubblicana.

Colpisce l’incoerenza fra due dei postulati del pensiero attuale sull’impresa: da un lato se ne esalta la centralità nella società moderna, nella quale svolge un ruolo essenziale di motore dello sviluppo; dall’altra, la si ritiene un oggetto di proprietà dei soci, che possono farne tutto quanto la legge non vieta. Se ne esce vedendo finalmente l’impresa come un soggetto di diritti e di doveri, con determinate prospettive, oserei dire anche sue naturali aspirazioni. Dall’attento perseguimento di tali interessi la società in senso ampio può trarre beneficio, non solo gli azionisti, o gli stakeholders.
In tale prospettiva al CdA è affidato l’interesse non già dei soci, nemmeno di tutti i soci, bensì dell’impresa. Essa va vista come un minore incapace, per conto del quale il CdA decide, cercando di interpretarne gli interessi di lungo periodo. Ciò è certo difficile, ma forse non più di quanto lo sia il capire come far crescere davvero il valore per l’azionista nel medio-lungo periodo. L’importante è identificare la meta, poi su come arrivarci possono esserci idee diverse.
Il momento in cui gli interessi di azionisti e impresa facilmente possono divergere è quando un soggetto esterno vuol rilevare una divisione dell’impresa, o il suo controllo, (nel qual caso, se l’impresa è quotata, questi deve lanciare un’Opa, Offerta pubblica d’acquisto). In entrambe i casi, il CdA ha un ruolo: nel primo, decide lui se vendere o no, nel secondo deve esprimere il proprio parere sull’Opa.
La cessione di una divisione, ad esempio, potrebbe dare grandi soddisfazioni agli azionisti, ma al contempo decretare la morte dell’impresa, magari perché il compratore vuol chiuderla o ridimensionarla, trasferendo altrove le attività e tenendosi il mercato. Ciò è magari interesse degli azionisti, forse non dell’impresa.
In caso di Opa, se il prezzo è interessante gli azionisti possono certo vendere le azioni; eppure la legge impone al CdA di esprimere un’opinione sull’Opa. In una visione meramente proprietaria, ci si può chiedere cosa c’entri il CdA. È proprio perché l’impresa è un corpo vivo, dal quale dipende il benessere di tanti, ben oltre la platea degli stakeholders, che sul CdA grava tale responsabilità. Esso deve domandarsi cosa conviene all’impresa e agire di conseguenza. Non solo negli Usa, anche in Italia.

Vivendi – Telecom Italia: caso emblematico?

Ci si può chiedere se tale impostazione non possa scoraggiare gli investitori, così accrescendo il costo del capitale per le imprese. La prima risposta a tale obiezione è forse troppo facile ma ha pure il suo peso: non pare che negli Usa, tempio del capitalismo di mercato, ciò costituisca un grave problema. Quando uscirà questo numero della Voce degli Indipendenti, staremo forse assistendo ad un caso emblematico. La francese Vivendi, fresca azionista di controllo di Telecom Italia (TI) e principale azionista privato di Mediobanca all’8%, ha sostituito il precedente Ad della società, Marco Patuano, installando in sua vece Flavio Cattaneo (a suo tempo nominato da Berlusconi DG della Rai). Al contempo, Vivendi sta negoziando con Mediaset una partecipazione incrociata del 3,5%, che dovrebbe cementare un’alleanza a tutto campo fra i due gruppi.
Cosa comporterà tale incrocio per TI? Da notare che nel suo CdA siede Tarak Ben Ammar, presente anche nel consiglio di Sorveglianza di Vivendi e nei CdA di Mediobanca; di qui un forte rischio di confusione d’interessi. Il CdA non dovrà prendere ordini da nessuno, giudicando invece, nella propria autonoma responsabilità, quali proposte rispondono all’interesse di TI. Per soprammercato, TI dovrà anche pronunciarsi su due Opa concorrenti lanciate, sulla sua controllata Inwit (che gestisce torri di trasmissione dei segnali telefonici), presentate rispettivamente da Ei Towers, controllata di Mediaset e dagli spagnoli di Cellnex con il fondo italiano F2i. Il tema qui non è il conflitto d’interessi di Berlusconi, che farà benissimo i propri; vedremo come il CdA di Telecom Italia farà quelli dell’impresa affidata alle sue cure.


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