Monistico vs tradizionale: un modello per ogni stagione
Il convegno organizzato dal Chapter romano di Nedcommunity insieme al Dipartimento di Economia Aziendale dell'Università Roma Tre e in collaborazione con Morrow Sodali ha cercato di fare il punto sull'adozione dei diversi sistemi di corporate governance: l'ordinario resiste con qualche eccezione
Getty ImagesOgni stagione ha bisogno del giusto “modello”, inteso come sistema di governo aziendale. Questa, in sintesi, la conclusione emersa al termine del convegno organizzato dal Chapter romano di Nedcommunity, guidato da Ines Gandini, con il Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università Roma Tre ed in collaborazione con Morrow Sodali, il 27 maggio scorso. Il seminario dal titolo Il Modello Monistico ed il Tradizionale: nuovo che avanza verso usato sicuro?ha messo attorno a due tavole rotonde, esperti, giuristi, docenti ma anche esponenti delle istituzioni e del mondo dell’impresa. Il tutto in un contesto, come ha ribadito il presidente di Nedcommunity, Alessandro Carretta, fortemente legato all’attualità: “Parlare dei modelli di governance – ha spiegato nella sua introduzione ai lavori – non può di certo prescindere dal percorso che prenderanno i lavori che il governo ha avviato adesso con la riforma del TUF. Su questo tema in particolare Nedcommunity ha recentemente istituito una propria commissione, di cui fa parte anche Sabrina Bruno, qui presente, per dare il proprio punto di vista”.
Andrea Di Segni, senior managing director di Morrow Sodali ha esposto il punto di partenza: “Il dibattito sui modelli di governance è estremamente attuale e importante per il futuro del nostro sistema finanziario. Tuttavia, dovremmo interrogarci anche sul sistema di nomina dei consiglieri. Lo staggered, ad esempio, è adottato ormai soltanto da una grande Società quotata. Secondo la mia visione personale questo meccanismo si presta meglio per il raggiungimento di obiettivi di medio e lungo periodo. Infatti, è in grado di garantire un equilibrio tra rinnovamento del Consiglio e continuità delle competenze ed esperienze, prevenendo situazioni potenzialmente disruptive, sotto un profilo di governance, non così rare per il mercato italiano”.
Adeguatezza vs modello
È toccato al collega Fabio Bianconi, managing director di Morrow Sodali, dimostrare con i dati che gli investitori istituzionali più che al tipo di modello guardano alla sua adeguatezza per l’azienda in cui intendono scommettere. Secondo i dati dello studio Il modello monistico ed il tradizionale. Studi di mercato: il punto di vista degli investitori istituzionali, non è emersa infatti una netta preferenza nei confronti di uno specifico sistema. La maggior parte degli investitori intervistati lascia ampia autonomia alle Società per definire il proprio assetto di governance. “Alla domanda ‘Quando pensi alla governance di una società su cosa ti interroghi?’ ancora oggi gli investitori rispondono in particolare di prestare attenzione al livello di indipendenza, al gender balance, alla cybersecurity, all’expertise su AI. Quando abbiamo domandato quali sono le priorità nelle fasi di engagement è emerso che la struttura della governance è importante per il 33% delle società ma non è preponderante come, per esempio, il climate change (85%)”. Nella maggior parte delle assemblee che hanno visto l’adozione del modello monistico (Intesa 2016; UBI 2018; Sesa 2021; illimity 2022 e UniCredit 2023), i tre principali Proxy Advisor ISS, Glass Lewis e Frontis Governance hanno supportato le delibere promuovendo le proposte con raccomandazioni favorevoli. Un’analisi sul comportamento di voto dei principali investitori istituzionali rivela un sostanziale allineamento alle proposte di modifica statutaria. In sostanza, quando il mercato è adeguatamente ingaggiato ed informato, supporta l’adozione del modello, senza se e senza ma“.
Attenzione crescente
Paolo Montalenti, professore emerito di Diritto Commerciale all’Università di Torino e moderatore della prima tavola rotonda incentrata sui profili giuridici del sistema monistico, ha premesso come tale sistema di amministrazione, anche se non in termini assoluti, stia, se pur lentamente, suscitando una rinnovata attenzione. Più precisamente ha sottolineato che se, da un lato, dai “dati statistici dell’Osservatorio delle imprese della Camera di commercio di Milano, emerge che meno dell’1 per cento delle società azionarie italiane ha adottato sistemi di governance alternativi rispetto al modello tradizionale, si deve tuttavia segnalare, dall’altro lato, una certa ripresa di attenzione per il sistema monistico, in particolare nel sistema bancario: si pensi ad Intesa SanPaolo e a UBI Banca”. Ha inoltre puntualizzato che il problema dei sistemi di amministrazione si colloca nel quadro generale “degli assetti organizzativi adeguati, vero pilastro della governance e necessariamente oggetto di un confronto puntuale fra giuristi e aziendalisti, non limitato ad un rapporto fra studiosi e professionisti dei singoli settori bensì corroborato da un dialogo con le imprese e con coloro che in azienda quotidianamente operano senza dimenticare le istituzioni che sovraintendono al funzionamento dei mercati finanziari”.
Ha poi messo in luce che, in materia di sistemi di amministrazione, il processo di armonizzazione è ancora parziale e contradditorio. Da un lato la Proposta di V Direttiva comunitaria sulla società per azioni del 1983 non è mai stata approvata; dall’altro lato, attraverso la prassi e i codici di autodisciplina si segnala anche nel sistema tradizionale una convergenza dialettica tra amministrazione e controllo, con una più precisa articolazione tra comitati di amministratori e organismi aziendali, per una più efficiente gestione dell’impresa. Il sistema monistico, in questo quadro, può rappresentare una soluzione efficace per una buona governance. Tuttavia, la disciplina attuale del sistema monistico nel diritto societario italiano, raffrontata con le norme del sistema tradizionale, solleva diversi problemi interpretativi in particolare in materia di poteri-doveri di amministrazione, da un lato, e poteri-doveri di controllo e di vigilanza, dall’altro lato, dei componenti del comitato di controllo sulla gestione. Ad esempio, non è espressamente prevista la vigilanza del comitato per il controllo sulla gestione sull’osservanza della legge, dello statuto e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione. Per converso è espressamente prevista la vigilanza «sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione» [art. 2409-octiesdecies, co. 4, lett. b)]. In conclusione, una distinzione non sempre chiara tra status di amministratore del componente il comitato per il controllo sulla gestione ma con divieto di svolgere «anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa sociale o di società che la controllano e ne sono controllate» (art. 2409-octiesdecies, co. 2) e funzioni di controllo e vigilanza. Un intervento correttivo, in favore di una più limpida fisionomia funzionale del sistema monistico, in base alla delega della Legge Capitali, potrebbe essere opportuno.
Sabrina Bruno, professoressa ordinaria di Diritto Commerciale Unical e Luiss G. Carli, associata di Nedcommunity, ha ricordato che “la società per azioni in Italia nasce con il modello monistico con il primo codice del commercio del 1865. Alla fine del 1882 con il nuovo codice di commercio è stato introdotto il collegio sindacale facendo riferimento alla legislazione belga e alla prassi di alcune grandi società per azioni per introdurre un organo di controllo a tutela dei soci: i sindaci dovevano essere completamente indipendenti dagli amministratori. Nasce il modello ‘tradizionale’. La riforma del 2003 che introduce la possibilità di adozione del dualistico e del monistico a fianco di quello ordinario non ha previsto quindi qualcosa di completamente estraneo alla nostra tradizione giuridica. La domanda però rimane: questo monistico offre le stesse garanzie del collegio sindacale? Le prime due società che lo hanno adottato, Intesa Sanpaolo nel 2016 e Ubi Banca nel 2018 hanno introdotto clausole che rendono il loro sistema un monistico sui generis: sono infatti state mutuate per il comitato varie disposizioni previste per il collegio sindacale e di fatto possiamo parlare di monistico sui generis, ovvero di tradizionale con nome diverso. Peraltro, il nostro monistico è diverso, per esempio, da quello britannico, statunitense ma anche francese. In quegli ordinamenti l’assemblea dei soci nomina gli amministratori e non è previsto un comitato di controllo sulla gestione. La concezione del monistico è di un cda unitario, non c’è contrapposizione, in quegli ordinamenti, fra esecutivi e non esecutivi. In UK, per esempio, i comitati interni sono tre (audit, nomina, compenso), ma non esiste un comitato interno sulla gestione; in ogni caso la legislazione non si riferisce ai neds o ai comitati ma è il codice di corporate governance (e quindi l’autoregolamentazione) che li menziona. Il codice di corporate governance è stato modificato a gennaio scorso per rafforzare i controlli interni e la gestione dei rischi a seguito di alcuni scandali contabili/finanziari che hanno riguardato importanti società britanniche. Addirittura, il governo vuole introdurre una nuova legge che disciplini in maniera più rigida il controllo esercitato dalla società di revisione anche introducendo una nuova autorità di vigilanza chiamata ARGA. Sono emersi dunque seri problemi di controllo interno e gestione dei rischi in UK (ma anche negli USA) per cui conviene davvero valutare attentamente se è il caso di incentivare nel nostro ordinamento l’utilizzo del modello monistico al posto del modello tradizionale in cui la presenza del collegio sindacale offre una più efficace vigilanza sulla gestione”.
Convergenze parallele
Paolo Valensise, professore ordinario di Diritto Commerciale Università Roma TRE ha ribadito un concetto chiave che sarà ripetuto più volte nel corso del convegno, già emerso dalla ricerca di Morrow Sodali: “Non penso ci sia un sistema migliore di un altro, può accadere che ci siano sistemi più o meno validi la cui adeguatezza va valutata in riferimento alle più svariate circostanze che le imprese e gli azionisti si trovano a fronteggiare. Certo possiamo affermare che il sistema dualistico ha vissuto momenti di fugace successo e ambiva in un certo senso a introdurre uno strumento che agevolasse il passaggio generazionale, da sempre molto delicato nel nostro Paese. Possiamo affermare che è andata davvero in questo modo? Forse no. Ma torniamo al nostro tema: il tradizionale e il monistico sono alternativi? La risposta, allo stato, non risulta agevole. Mi sembra infatti che si sia andato configurando un fenomeno di “convergenze parallele”. Da un lato occorre registrare una sorta di “monisticizzazione” del sistema di amministrazione e controllo tradizionale con l’accentuazione del c.d. monitoring board e, dall’altro, una tendenziale “sindacalizzazione” del sistema monistico, riscontrabile in particolare in esperienze come quelle del sistema monistico bancario, nel contesto delle quali emergono, anche in ragione del peculiare assetto normativo, elementi di significativo avvicinamento al modello del collegio sindacale per ciò che concerne assetti e competenze del comitato per il controllo sulla gestione “.
Sara Nocella, della Divisione corporate governance della Consob, ricorda come “la Commissione aveva avuto un atteggiamento molto proattivo in passato sul monistico intervenendo già nel 2015 con la pubblicazione di un quaderno giuridico in cui intendeva valorizzare le possibilità di questo sistema ritenendolo adeguato proprio per le quotate, pur con necessari adattamenti, valorizzandolo, in particolare, per la riconoscibilità del modello nei confronti degli investitori stranieri e nell’ottica della semplificazione dei controlli”. Sembrò allora un modello sul quale puntare. Da un punto di vista quantitativo, tuttavia, oggi la diffusione del modello monistico non sembra cambiata molto: soltanto 9 società quotate su 208 del listino lo hanno adottato. Nemmeno il 5% delle quotate. Ancora più ridotto è il successo del dualistico. Sul fronte qualitativo notiamo, però, un aumento di interesse per questo sistema con i due campioni nazionali del settore bancario che lo hanno adottato assieme a cluster di emittenti dalle caratteristiche societarie ben differenti. Cosa cambia se andiamo a guardare come viene declinato il modello monistico negli statuti di questi due gruppi di aziende? Per quanto riguarda le banche di grandi dimensioni, Banca d’Italia ha segnalato tutta una serie di correttivi da adottare con le Istruzioni di vigilanza, mentre nelle società non finanziarie invece le cose sono differenti. Un dato emerge chiaramente: da un lato, nelle società finanziarie, abbiamo la “sindacalizzazione” del modello monistico, ovvero statuti che cercano di recuperare quanto più possibile le caratteristiche del collegio sindacale e dall’altro, nelle società non finanziarie, società che disciplinano il comitato per il controllo della gestione alla stregua più o meno di un comitato endoconsiliare del cda”. Questa divaricazione, resa possibile dall’assenza di una disciplina normativa chiara del modello monistico, mette, tuttavia, in dubbio l’assunto principale alla base della libertà di scelta del modello di amministrazione e controllo: ossia, che entrambe le declinazioni del modello monistico rilevabili nella prassi possano essere ritenute egualmente equivalenti sul piano dell’efficienza e dell’efficacia dei controlli interni rispetto al modello tradizionale. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento del legislatore che chiarisca più precisamente come deve essere declinato il modello monistico in modo da assicurarne l’equivalenza sul piano dell’efficienza del controllo interno.
Stefano Cappiello, direttore generale della Direzione V “Regolamentazione e Vigilanza del Sistema Finanziario” del Ministero dell’Economia e delle finanze ha offerto il punto di vista delle istituzioni invitando a ricordare che “un sistema di corporate governance competitivo è un sistema che introduce presidi, incentivi e deterrenti chiari, stabili nel tempo, allo scopo di tutelare la pluralità di interessi che ruotano attorno all’attività di un’impresa sociale. Il Mef considera due poli di riferimento come imprescindibili: crescita e stabilità. Il sistema di regole deve favorire entrambi. Questo vale sia per le imprese finanziarie sia per quelle non finanziarie. Bisogna, però, trovare un giusto equilibrio. La scelta del 2003 di introdurre diversi modelli societari è ispirata al pluralismo e alla riconoscibilità: non eliminerei nessuno dei tre modelli”.
Il punto di vista delle banche
Nel corso della seconda tavola rotonda moderata da Ines Gandini, independent director, statutory auditor, consigliere direttivo Nedcommunity e delegato del Chapter di Roma si sono affrontati i profili operativi del sistema monistico dando la parola al mondo bancario e industriale. Anche qui è emerso un tratto comune con qualche eccezione. Se per Manlio Stefano Nuzzo, Head of Group Corporate Affairs Department di UniCredit ed esperto di corporate governance e regolamentazione bancaria, non esiste un modello migliore dell’altro, per Riccardo Losi, presidente del collegio sindacale di Moncler, associato Nedcommunity, un distinguo è possibile: il monistico non sarebbe adatto alle società industriali. Per Emilio De Lillo, dirigente della Direzione centrale organi e affari societari di Intesa Sanpaolo, i diversi modelli di governo vanno contestualizzati all’interno di un percorso storico e organizzativo dell’impresa e dei suoi rapporti con gli azionisti: lo stesso modello può presentare nel tempo varianti evolutive che lo rendono meglio adatto allo specifico contesto. Paradigmatico è l’esempio di Intesa Sanpaolo che per la capogruppo – come avvenne già per il dualistico, che vide due diverse fasi nella struttura del consiglio di gestione – ha sviluppato nel tempo alcuni affinamenti del monistico, dopo la sua prima adozione nel 2016, tenendo conto degli spazi interpretativi maturati sul rapporto tra comitato per il controllo sulla gestione e gli altri comitati consiliari. Secondo Monica de Virgiliis, presidente del consiglio di amministrazione SNAM, consigliere indipendente Air Liquide S.A., consigliere indipendente Georg Fischer AG, la “semplificazione della struttura di governance nel monistico mi sembra più aderente alla realtà dei fatti”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Giovanni Lombardi, General Counsel, illimity Bank per il quale, come ricordato anche dal Quaderno Consob del 2015, “il modello monistico è quello più adatto soprattutto, ma non solo, alle società in rapida evoluzione, in cui la principale condizione per il successo è la flessibilità e la rapidità del processo decisionale e un consiglio in cui convivano diverse professionalità con cultura del controllo ex ante, integrata nella fase di valutazione e approvazione”.
Quel che è certo, ha ribadito Stefano Firpo, direttore generale Assonime è che “finora questo modello ha avuto un utilizzo davvero modesto: la causa di questo scarso successo è legata a una sorta di perdurante primazia del modello tradizionale. Un modello che affida al collegio sindacale tutta una serie di poteri e di doveri molto più ampio rispetto a quanto previsto per gli organi di controllo negli altri Paesi e con un ruolo forte per l’Autorità di vigilanza. Queste peculiarità si sono estese nel corso del tempo anche agli altri modelli, monistico e dualistico, e anche il modello tradizionale è stato contaminato da prassi (articolazione dei comitati nel consiglio) e norme di origine internazionale, pensate per gli altri modelli (ad esempio i compiti del comitato audit). L’effetto di questa osmosi tra i modelli nel nostro ordinamento è stato quello di renderli peculiari rispetto al loro funzionamento in ambito internazionale. Occorre tornare all’idea iniziale, di quando nel 2003 sono stati introdotti i tre modelli, quella di renderli funzionali alla competitività delle imprese in ambito internazionale, valorizzandone i tratti specifici per favorire una scelta delle società in relazione al proprio mercato e ai propri assetti proprietari. È stato detto nel panel che ci ha preceduto e va sottolineato: al mercato fa bene avere un sistema pluralistico di modelli di governo dell’impresa, che siano riconoscibili e diversi. Il quadro normativo attuale rende di fatto l’articolazione delle funzioni di controllo delle società quotate italiane particolarmente complessa e onerosa, con sovrapposizioni, potenziali lacune e sicure inefficienze. Il progetto di riforma del TUF che è in corso, in attuazione della delega della legge capitali, è, in questo senso, un’occasione da non mancare “.
In conclusione, per usare le parole di Ines Gandini “sembra di capire dagli interventi che precedono che non si può concludere che un sistema sia migliore dell’altro e che l’approdo al monistico rappresenta comunque un processo graduale, un percorso che le società, chi prima chi dopo, arrivano a compiere dopo aver provato gli altri sistemi. Forse fra la sindacalizzazione del monistico bancario e la monisticizzazione del tradizionale italiano sarebbe utile trovare una sorta di via di mezzo che ci porti a un modello 4.0″.