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Modelli di governo societario e “cause del fallimento”

Il documento afferma che “quella che pare essere la principale ragione della mancata adozione dei modelli alternativi di governance consiste nel fatto che le disposizioni legislative contenute sia nel codice civile sia nel TUF, relative ai sistemi

Nota editoriale

Il documento “Quaderni giuridici n. 7 Consob – Modelli di amministrazione e controllo nelle società quotate”, di recente pubblicato da Consob, avanza una rflessione critica della governance tradizionale italiana, spingendosi a ipotizzare una maggior diffusione di un modello di governance che in Italia ha avuto scarso riscontro.

Scopo di questa nota è di offrire alcuni spunti di riflessione sui temi trattati.

Il documento afferma che “quella che pare essere la principale ragione della mancata adozione dei modelli alternativi di governance consiste nel fatto che le disposizioni legislative contenute sia nel codice civile sia nel TUF, relative ai sistemi alternativi di amministrazione e controllo, non costituiscono un corpus normativo autonomo e ben articolato, ma si caratterizzano per l’utilizzo della tecnica normativa di rinvio al sistema tradizionale. ….

I dati europei[1] indicano che in ben 14 paesi su 27, tra l’altro anche neI più competitivi, il modello di governance a disposizione per le imprese è uno solo. La tabella che segue mostra la fotografia europea per modelli di governance adottati e possibilità di scelta tra modelli:

Tab. 1.Board types and choices

# countries

%

examples

mandatory two tier

7

26%

Germany

mandatory one tier

6

22%

UK, Spain

mandatory nordic

1

4%

Sweden

choice of board types

13

48%

Italy, France, NL

total countries

27

 

 

Fonte: (adattato da Ecoda) “A guide to corporate governance in the European Union, 2015”.

Inoltre, anche qualora la scelta esista, i paesi si orientano verso un modello predominante, come emerge dalla seguente tabella:

Tab. 2 Behaviour   when choice is allowed

# countries

%

examples

Predominance of one tier

5

38%

Portugal

Predominance of two tier

5

38%

NL

Other country specific (italian, nordic)

3

23%

Italy

total countries

13

 

 

Fonte:(adattato da Ecoda), “A guide to corporate governance in the European Union, 2015”.

Un modello sembra dunque prevalere sempre sugli altri.
Una lettura europea del fenomeno sembrerebbe dunque ricondurre il mancato utilizzo diffuso di tutti I modelli di governance a disposizione ad una naturale inclinazione culturale che si riscontra in ogni paese. Dalla diagnosi discende la cura: al fallimento si accompagnano azioni mirate ad inserire maggior chiarezza regolamentare (dunque più norme). In un’ottica invece di preferenze culturali di ogni paese, potrebbe anche discendere la possibilità di curare semplificando al massimo, addirittura eliminando, come in più della metà dei paesi europei, la possibilità di usare opzioni di governance residuali.

Il modello monistico, questo (s)conosciuto

Dalla ricerca emerge che il modello monistico è il modello di governance più diffuso nelle società quotate sui mercati azionari europei e del resto del mondo. Sarebbe plausibile che una sua più diffusa adozione da parte delle società quotate italiane potesse giovare alla loro competitività, garantendo una loro maggiore riconoscibilità sulla scena internazionale.

I numeri si prestano a letture differenti. Limitandosi all’Europa ed analizzando I dati Ecoda in una ottica di “modello prevalente” e non in un’ottica di “modelli disciplinati”, il panorama cambia. Il monistico non sembra essere il modello più diffuso in Europa. Lo studio Ecoda censisce 27 paesi europei e segnala la presenza di modelli “prevalenti” nei paesi che offrono la scelta tra diversi sistemi di governance . I dati Ecoda sono riportati nella seguente tabella 3:

Tab 3.Board types in Europe

# countries

%

one tier (mandatory or predominant)

11

41%

two tier (mandatory or predominant)

12

44%

country specific( mandatory or pred)

4

15%

total countries

27

 

Fonte: (adattato da Ecoda) “A guide to corporate governance in the European Union, 2015”.

Certo, il monistico è il sistema affermato nel Regno Unito. Ma l’UK è anche il paese dei “Non Dom”, dove una campagna elettorale si è in parte giocata sulla possibilità di continuare a far affluire alla finanza UK capitali e cervelli stranieri grazie a strumenti fiscali. Non si è giocata sulla forza del monistico.

In secondo luogo va ricordato un importante aspetto culturale che potrebbe aver frenato l’utilizzo del monistico in Italia. L’Italia non sembra essere un paese culturalmente adatto a tale modello che vede controllori e controllati insieme nello stesso board. La rete dei directors italiani è molto più fitta, più connessa, per esempio, di quella UK, come mostra la Figura1.

Considering the extension and the depth of the network linkages, the Italian-French Blue Chips seem to be close to the collusive model described in the literature[2].

La potenziale vicinanza tra amministratori, tra “controllori e controllati”, è rappresentata graficamente nella Figura1, tratta da uno studio delle reti internazionali dei directors che mostra la rete MIB 40 e FTSE 100 (prime 40). La maggiore connessione dei directors della rete italiana, rispetto ad esempio a quella UK, rende la coabitazione sotto lo stesso tetto forse culturalmente poco efficace e desiderabile?:

Figura 1. Le reti Italiana e UK dei Directors.

Il motivo per Il quale il monistico non ha avuto grande fortuna è forse anche da ricercarsi nel fatto che il collegio sindacale consente di esternalizzare alcuni compiti di monitoraggio e vigilanza che possono determinare contrasto tra componenti degli organi sociali. Il monistico funziona bene dove controllori e controllati riescono a far emergere e gestire culturalmente i contrasti con una dialettica di ascolto e decisionale aperta e condivisa. Non si può negare l’impatto che le differenze culturali nazionali nei comportamenti e negli atteggiamenti hanno in termini di leadership, decisioni e gestione delle riunioni dei CdA.

Controlli, uno nessuno o centomila?

Il modello monistico, secondo una parte della dottrina, potrebbe altresì contribuire a rendere maggiormente razionale il sistema dei controlli interni delle società quotate, rispondendo efficacemente alle nuove e diversificate esigenze di un mercato dei capitali ormai globalizzato.

Certo, a chi, come la scrivente, siede sia come indipendente sia come sindaco in società quotate, capita ogni tanto di percepire tenue la distanza tra comitato rischi e collegio sindacale. Le varie riforme non hanno sempre aiutato a far chiarezza. Il rischio è che troppi ne parlino e nessuno se ne occupi!

Tuttavia, sostenere che eliminare il collegio significhi razionalizzare e semplificare non è forse un passo un po’ troppo lungo?

Eliminare tout court non è semplice. I processi, le organizzazioni hanno una storia, un DNA. Prima di tagliare un ramo, si può pensare a potare.

Il “Comitato controllo e rischi”, dovrebbe forse essere ribattezzato “Comitato Rischi”, secondo le moderne concezioni che vedono il consiglio occuparsi di rischi in via preventiva e non ex post.

La composizione del CdA dovrebbe poi poter riflettere il nuovo spirito mirato a prevenire piuttosto che a curare. La riforma dell’Audit Committee e lo spostamento delle competenze al Collegio sindacale dovrebbe aver dato qualche lezione a riguardo. Nei Comitati rischi ci sono le competenze per parlare di rischio in via preventiva e per poter creare la barriera che le moderne concezioni della governance invocano?

Infine, occorre porre attenzione alle differenze tra sistemi di Common law e Civil law e alle diverse suddivisioni dei compiti, non solo a livello apicale.
Prendiamo ad esempio il Company Secretary, o Segretario della Società, obbligatorio nelle PLC (Societa’ per Azioni), figura questa con compiti, tra gli altri, di “guardian” (fullfillment of company’s obligations) e Chief Administrative Officer. Tale figura certamente non è equiparabile al Segretario del Consiglio. Il Company Secretary è la persona che, come Chief Administrative Officer, può coadiuvare il CdA nella verifica della adeguatezza degli assetti organizzativi. Nel sistema tradizionale questo compito è affidato al Collegio Sindacale. In assenza di Collegio e di Company secretary non è molto chiaro come si possa mantenere il principio di segregation of duties e di accountability in alcuni dei ruoli che la legge assegna al Collegio Sindacale.

Guardiamo infine come funziona il sistema dei controlli in UK.
Lo studio Grant Thornton[3] suggerisce che forse non è tutto oro ciò che luccica. Lo studio della governance delle Ftse 350 dice “Over two thirds of reports give a detailed description of internal control and risk management arrangements, however only 19% adequately explain how the audit committee assessed the effectiveness of the internal controls”. Siamo certi che l’Audit Committee sia capace di capire, valutare, monitorare il sistema dei controlli?

La strada italiana

La strada del miglioramento sembra spesso essere quella del riscrivere le regole. Tuttavia, la qualità della legislazione dipende da come le regole sono scritte e da come il mercato le applica. Questo vuol dire continuare a lavorare per un miglior adempimento, inserire nei consigli e nei collegi le professionalità adatte. Un percorso che richiede tempo.

Riscrivere perché all’estero si fa diversamente, appare poi essere una strada scivolosa, perché non tiene conto delle diverse determinanti della governance, che è fatta di azionariato, di meccanismi di controllo, di remunerazione, di fisco e mercato del lavoro, di sistemi di controllo e, soprattutto, di sistemi legislativi (vedasi la diversità tra Common Law e Civil Law).

L’arroganza con la quale gli inglesi sostengono che ciò che fanno loro è “the best”, appare quanto meno sconcertante. Ma altrettanto sconcertante è l’atteggiamento italiano di critica verso tutto ciò che abbiamo, accompagnato all’irresistibile desiderio di importare sempre modelli culturalmente diversi dalla nostra tradizione, peraltro ricchissima di validi fondamenti riconosciuti dal mondo intero.

[1] Ecoda: A guide to corporate practices in the European Union, 2015.

[2] P. Santella, C. Drago, A. Polo, E. Gagliardi, 2008, Una comparazione tra le reti di amministratori nelle principali società quotate tra Italia, Francia e Gran Bretagna,

[3] Grant Thornton, 2015, Corporate governance Review 2014.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Livia Amidani Aliberti, fa parte del Comitato Scientifico di Nedcommunity, esperta di governance e gender diversity, fondatrice di Aliberti Governance Advisors ([email protected]).


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