La transizione verde, sfida per il Made in Italy
Fra caro energia e tensioni internazionali centrare gli obiettivi di sostenibilità diventa sempre più difficile. L’importanza della rilevazione dei dati non finanziari
Vishal Banik/UnsplashStiamo vivendo momenti molto difficili: alla gravità di un conflitto bellico, si vanno infatti sommando forti squilibri negli approvvigionamenti delle fonti energetiche e del gas, con pesanti effetti su tutte le economie occidentali, quella italiana in particolare.
L’ampio deficit energetico del nostro Paese, dove l’energia è prodotta per quasi la metà con il gas, per la più parte importato, sta causando serie difficoltà al sistema manifatturiero, mettendo a rischio la continuità aziendale di molte realtà produttive, incapaci di reggere le attuali dinamiche dei costi energetici.
Tornano con evidenza criticità note e ricorrenti, come l’incapacità di sfruttare appieno le risorse interne e i lunghi tempi della transizione energetica, tuttora in atto.
Torna il carbone
A corollario del quadro poc’anzi descritto, si assiste alla reintroduzione di misure certamente incoerenti con la transizione verde, come il revamping di impianti carboniferi in Germania, o l’accelerazione delle attività estrattive minerarie più invasive, quali la fratturazione idraulica negli USA.
In tale contesto, la sfida che le aziende del “Made in Italy” stanno affrontando per la “transizione verde” non è semplice, dovendo intraprendere azioni volte alla “sostenibilità dell’economia” e favorire così il passaggio ad un modello più virtuoso e sostenibile, senza poter sacrificare la profittabilità del business, spesso già messa a dura prova. Tale sfida può essere affrontata con successo partendo dalla corretta rilevazione, rendicontazione e utilizzo dei dati non finanziari.
Alla ricerca di una rilevazione ad hoc
Se siamo tutti consci del fatto che investitori, regolatori e stakeholder vanno sempre più riconoscendo primaria rilevanza ai temi in materia ambientale, di questioni sociali e di governance (ESG), meno chiara, invece, è la modalità di rilevazione e la qualità di dette misure. Mentre i sistemi di reporting dei dati finanziari possono oggi ritenersi standardizzati e, dunque, ben noti a tutti, lo stesso non può dirsi per le informazioni e i dati non finanziari, diffusi in assenza di principi e sistemi di rilevazione universalmente condivisi ed affidabili.
L’assenza di sistemi di misurazione oggettivi diventa un limite ancora più evidente quando si conviene (come non può che essere) che non esiste – soprattutto nel medio termine – alcun reale percorso di crescita di un’impresa priva della capacità di integrare pratiche e capability di management per dare forma a un’organizzazione sostenibile, con impatti ESG e forti relazioni di mutuo beneficio con i vari stakeholder.
Arrivano gli standard setter
Lo sforzo degli standard setter (mi riferisco in particolare ai due Exposure Draft – ED1, ED2 – pubblicati a fine marzo scorso da International Sustainability Standards Board, o ISSB) è volto proprio a definire i requisiti generali di informativa per ogni organizzazione che voglia effettuare una disclosure (i) di informazioni finanziare “sustainability related” relative a rischi e opportunità rilevanti (General Requirements for Disclosure of Sustainability-related Financial Information – ED1), e (ii) dei rischi e delle opportunità connesse al clima (Climate-related Disclosures – ED2).
Tali documenti, seppur ancora in consultazione e, allo stato, contenenti indicazioni di non sempre facile attuazione per la più parte delle imprese meno strutturate, hanno comunque il pregio di iniziare a tracciare un indirizzo in tal senso.
Il contributo del Financial Reporting Council
L’enfasi sulla rilevanza crescente di dati ESG affidabili per un’impresa si trova anche in un recente studio del Financial Reporting Council (FRC Lab. Improving ESG data production – AUG 22) basato su molte interviste e tavole rotonde svolte sul tema. Lo studio evidenzia tre elementi fondamentali, tra loro connessi, per migliorare produzione e utilizzo di dati ESG:
1. la motivazione;
2. il metodo;
3. la capacità di saper correttamente interpretare tali dati.
Il primo requisito è la motivazione. L’impresa che ha una buona governance è governata da un consiglio di amministrazione che ha la giusta sensibilità sul tema e che, dopo aver definito scopo, valori e strategia aziendale, sa considerare l’importanza dei fattori ESG e accertare se la cultura aziendale è, o meno, allineata a tale visione. La possibilità di disporre di dati, finanziari e non finanziari, con una periodicità almeno trimestrale, è per tale impresa un elemento essenziale, abilitante il successo.
Il secondo requisito è il metodo. Un’organizzazione efficace avrà cura di accertare che le risorse umane e tecnologiche necessarie per raggiungere i propri obiettivi siano adeguate, saprà correttamente valutare chi processa i dati, in forma manuale o sistemica, chi reperisce le informazioni di natura non finanziaria e potrà esprimere un giudizio di loro affidabilità, dopo aver testato il sistema di controlli interno, che dovrà essere prudente, ma efficace.
Ultimo requisito è la capacità di correttamente interpretare i dati. Se è vero che “solo ciò che si può misurare, si può gestire”, allora il ruolo fondamentale del consiglio è quello di saper correttamente interpretare tali dati e trasfonderli nella strategia. Con la cultura del rischio che il consiglio e il top management sapranno esprimere (Tone at the Top), la strategia si tradurrà in azioni concrete e coerenti, dentro e attraverso l’organizzazione. Gli inevitabili gap conoscitivi di processo e utilizzo dei dati ESG andranno colmati, anche grazie all’ausilio di consulenze e supporti tecnici, per poterne estrarre al massimo le loro potenzialità.
Una visione olistica dell’impresa ed un efficace allineamento della rendicontazione finanziaria e non finanziaria, saranno un valido aiuto nella non semplice sfida da affrontare.