La “digital disruption” farà cambiare i tradizionali modelli di business
Francisco Gonzalez, CEO della banca internazionale BBVA, ha affermato che il 50% delle banche potrebbe scomparire nei prossimi anni a causa della cosiddetta “digital disruption” nel settore fintech, ossia delle tecnologie applicate ai servizi finanziari.
Nota edtoriale
L’associato NED Giuseppe Donvito, stimolato dall’appello della Presidente di ecoDA Turid Elisabeth Solvang sulla “Rivoluzione digitale” in atto (pubblicato nel precedente N. 28 di questa Rivista), ci ha proposto questo articolo che siamo lieti di pubblicare per l’interesse che presenta la “digital disruption” per tutti i nostri lettori.
Tale concetto, ormai diventato di estrema attualità, è nato nel 1942 grazie alla teoria dell’innovazione introdotta con la sua opera “Capitalism, Socialism, Democracy” dall’economista austriaco/americano Joseph Schumpeter che l’aveva definito “la tempesta della distruzione creativa”. Oggi generalmente viene citato in inglese con un’espressione traducibile in “spaccatura digitale” ma noi preferiamo chiamarla ” Rivoluzione digitale”.
Alcuni esempi concreti
Francisco Gonzalez, CEO della banca internazionale BBVA, ha affermato che il 50% delle banche potrebbe scomparire nei prossimi anni a causa della cosiddetta “digital disruption” nel settore fintech, ossia delle tecnologie applicate ai servizi finanziari. L’ex CEO di Cisco ha dichiarato che il 40% delle aziende attuali non esisterà più nei prossimi 10 anni perché non riuscirà a sopravvivere alla rivoluzione digitale in atto.
Per comprendere al meglio ciò che sta accadendo basta qualche numero: nel 2003 Facebook e gli smartphone non esistevano e gli utenti internet erano circa 800 milioni. Oggi Facebook conta 1,4 miliardi di utenti, gli abbonamenti a smarthphone sono circa 2 miliardi e si contano circa 4 miliardi di utenti Internet. Ma non è solo un discorso di persone: ci sono oggi 5 miliardi di oggetti e dispositivi connessi in rete che, secondo Cisco, nel 2020 arriveranno a circa 50 miliardi. Tutto questo implica che ogni cosa o persona diventa connessa, che da queste connessioni si generano un’enorme quantità di dati e che tali dati, abilitati da software sempre più evoluti, forniscono al business ed alle imprese un’ “intelligenza” che va a permeare tutti i processi aziendali.
La rivoluzione digitale sta cambiando tutto, in tanti settori, in maniera radicale, ad una velocità impressionante. Aziende che fino a pochi anni fa vantavano solide leadership di mercato (si pensi a casi come Blockbuster), sono state travolte da nuovi soggetti, capaci di attivare innovativi modelli digitali, “distruttivi” dell’esistente. La digital disruption ha abbassato le barriere all’ingresso in molti settori causando il collasso di relazioni consolidate e durature nel tempo (anche fra settori adiacenti). Come fatto notare da alcune società di consulenza strategica, la natura “plug and play” dell’asset digitale sta causando la disaggregazione della value chain, quindi agevolando l’ingresso di players focalizzati e veloci (tipicamente startup) in mercati storicamente dominati da entità che, per rigidità strutturali e costi elevati, fanno fatica a competere.
In un mondo digitalizzato il cliente è divenuto più informato ed esigente. Come risposta l’azienda deve a sua volta utilizzare ogni tipo di informazione per generare conoscenza utile a soddisfare il cliente, e questo lo fa utilizzando ad esempio tecniche di analisi predittiva o di intelligenza artificiale, due nuove frontiere del digitale.
L’Intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale è una tecnologia destinata a trasformare tutti i settori dell’economia. Un impatto non banale in quanto con questa tecnologia si “addestrano le macchine” a pensare e prendere decisioni come esseri umani, con una piccola differenza (almeno sino ad oggi…): che tutte le decisioni sono empiriche e quindi basate sull’analisi di dati. Ed è qui che l’intelligenza artificiale si compenetra al mondo dei cosiddetti Big Data. “Insegnerò all’intelligenza artificiale a riconoscere i miei amici quando bussano alla porta.” Così ha scritto Mark Zuckerberg in un suo recente post in cui dichiarava di voler costruire la “propria” intelligenza artificiale entro l’anno.
Gli effetti dell’IA saranno dirompenti in tutti i business. Basti pensare che grazie ad essa i computer potranno capire cosa gli utenti umani scrivono all’interno dei social websites come Facebook (e quindi interagire) o capire cosa vogliano cercare realmente, quale sia il loro stato d’animo, se l’immagine che hanno appena visualizzato gli sia piaciuta oppure no. Dirompenti saranno anche i suoi effetti sull’e-commerce.
Oltre a ciò, l’IA inaugurerà una nuova era del “consumatore”. Si pensi che già oggi delle tecniche definite di analisi predittiva permettono di dedurre trend futuri basandosi su serie storiche di dati; l’utilizzo dell’intelligenza artificiale permetterà di andare oltre, ossia qualora dovessimo avere dei gap rilevanti in tali serie storiche, le applicazioni basate sull’IA saranno in grado di dedurre i dati da inserire in tali gaps in maniera “intelligente”.
Molto rumore c’è stato recentemente su una delle applicazioni più evidenti e di rottura dell’IA, ossia nella robotica: in particolare, la possibilità di costruire robot intelligenti che diventino parte integrante delle nostre vite. Un recente report di Bank of America Merrill Lynch ha concluso che la nascita di “macchine intelligenti” è da considerarsi la prossima rivoluzione industriale.
La combinazione di AI, deep learning e natural user interfaces (ad esempio, riconoscimento vocale) sta rendendo sempre più vicina l’automatizzazione di una serie di funzioni lavorative che fino a qualche tempo fa si pensava fosse impossibile realizzare con una “macchina”. Su questo punto si è aperto un incerto dibattito fra chi sostiene che il potenziale effetto di lungo termine sarà la scomparsa di posti di lavoro e chi ritiene che invece tali tecnologie apriranno le porte a nuove opportunità professionali.
E’ come sempre complesso ad oggi individuare le conseguenze di tale rivoluzione, ma l’unica certezza resta il fatto che il management di ogni azienda dovrà sin da subito cercare di individuare gli impatti dell’intelligenza artificiale sulla propria value chain, in quanto l’effetto “trasformante” sarà a dir poco drammatico, con il rischio implicito che un giorno il management stesso sia sostituito da macchine intelligenti…
La rivisitazione del Business Model
Nessun settore ne è esente, inclusi quelli high tech. La rivisitazione del business model dovrà ovviamente andare nella direzione della cosiddetta “economia digitale”, cioè di un’economia in cui i paradigmi tradizionali sono cambiati, i cicli tecnologici si accorciano sempre più e il valore viene creato sfruttando la crescente densità di interazioni fra business, persone e cose (cit. Gartner).
La “riaggregazione” della catena del valore, non necessariamente simile a quella originaria, potrà avvenire mediante l’utilizzo di interfacce digitali che ogni azienda dovrà costruire per connettersi e collaborare con altre parti dell’ecosistema. Occorre però fare una precisazione: per sopravvivere e accrescere il proprio valore, le aziende non dovranno modificare il proprio business model solo una volta ma lo dovranno fare in maniera continua e, se necessario, cercando di leggere la natura fluida dell’economia digitale.
Per essere competitivi in questi contesti tutti gli attori dovranno investire in infrastrutture IT flessibili e aperte all’integrazione di altri prodotti e servizi. Inoltre, queste evoluzioni si dovranno inevitabilmente riflettere nelle strutture organizzative e manageriali delle aziende che, dal Board in giù, dovranno assimilare e implementare una cultura digitale. All’interno delle strutture dovranno necessariamente essere presenti nuove figure, fra cui il CIO (Chief Innovation Officer), il CDO (Chief Data Officer) e questo, di nuovo, potrà scontrarsi con paradigmi e normative giuridiche tradizionali presenti in aziende consolidate.
Fino a qualche tempo fa si pensava che la gestione della “rottura digitale” da parte delle aziende potesse avvenire sviluppando sacche di innovazione interne mediante incubatori o laboratori high-tech. La mia esperienza di Venture Capital oggi dice invece che i processi di innovazione dovranno essere omni-comprensivi e avvenire all’interno di ogni dipartimento, divisione e nucleo di un’organizzazione. E’ consigliabile a tal proposito l’introduzione nei Board di professionisti “portatori” di innovazione e cultura tecnologica, abili non solo nello scouting e nella comprensione dettagliata delle nuove tecnologie, ma anche abituati a vederle integrate in realtà aziendali e quindi saperne valutare l’impatto di rottura.
Un esempio importante di disruption è quanto sta avvenendo nel settore dei servizi finanziari a causa del cosiddetto “fintech“, ossia l’utilizzo di tecnologie e modelli di business innovativi, nei settori banca e finanza. Particolarmente significacativo è stato l’avvertimento del CEO di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, nella sua lettera annuale agli azionisti: “La Silicon Valley sta arrivando”, per evidenziare il crescente numero di start-up che lavorano, ad esempio, su varie alternative al sistema bancario tradizionale. Con questa affermazione, Dimon si riferiva in particolare al business dei finanziamenti, ormai proposti in maniera efficace oltre che da istituzioni bancarie anche da singole persone grazie alla disponibilità di modelli di valutazione del rischio basati sull’utilizzo dei Big Data.
Come indicato in un recente articolo del Wall Street Journal, le modalità di pagamento e di investimento a noi familiari finora, lasceranno il posto a qualcosa di molto diverso e ci troveremo di fronte a una sorta di “Uberizzazione” della finanza, ossia l’utilizzo dei big data per rendere le connessioni dirette tra le parti più semplici e veloci.
Come in altri settori “digitally disrupted“, una delle ragioni per una crescita così rapida del FinTech è la drastica riduzione degli investimenti necessari a sviluppare un nuovo servizio. Diffusione di Cloud computing e di APIs (Application Programming Interface) consentono rispettivamente di ridurre i costi infrastrutturali e di integrazione con altri prodotti e servizi. Un esempio su tutti? Il robo-advisory, ossia la gestione dei risparmi automatizzata attraverso algoritmi che rappresenta una delle applicazioni più promettenti e una evoluzione. Anziché rivolgersi a un consulente in carne e ossa, i clienti rispondono ad una serie di domande online: quanto vogliono investire, per quanto tempo, con quale obiettivo.
Entro il 2017, secondo Gartner, il 70% dei business models digitali di successo sarà basato su processi deliberatamente instabili disegnati per adattarsi ai mutevoli bisogni del cliente finale. Entro il 2018 il 50% delle imprese affronteranno le novità, sfideranno lo status quo e si ingegneranno per superare la Big Change Revolution. Il risultato di tutto ciò sarà la mutazione verso processi agili, adattabili e “supermanovrabili” in ottica customer-centric. Stiamo vivendo tutti in un’epoca di grandi cambiamenti e se non si vuole essere travolti dalla rivoluzione digitale non si può fare altro che abbracciarla come suggerisce James McQuivey, CMO di Forrester, nel suo video “Digital Disruption: Unleashing the Next Wave of Innovation”.
Uno spunto finale: recenti studi hanno evidenziato che le società USA acquistano startup innovative quattro volte di più delle aziende europee; non dovrebbe stupire se diciamo che anche comprare startup è il modo più veloce di affrontare la disruption e continuare a innovare.
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