Dura lex

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Come noto, per il Codice di Autodisciplina sono indipendenti gli amministratori non esecutivi che “non intrattengono, né hanno recentemente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da

L’indipendenza della società eterodiretta rispetto alla società che esercita la eterodirezione: indipendenza di giudizio di tutti gli amministratori anche di quelli esecutivi

1. Come noto, per il Codice di Autodisciplina sono indipendenti gli amministratori non esecutivi che “non intrattengono, né hanno recentemente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio” (Principio 3.P.1.). La definizione del requisito di indipendenza si presenta dunque come una situazione di fatto, posto che l’“indipendenza di giudizio” è un atteggiamento richiesto a tutti gli amministratori, inclusi quelli esecutivi (Commento all’art. 3).
Sempre stando a quanto raccomandato dal Codice di Autodisciplina (Commento all’art. 1) “ciascun amministratore assume le proprie scelte con libero apprezzamento, nell’interesse dell’emittente e della generalità degli azionisti”; “quando le scelte gestionali siano state preventivamente vagliate, indirizzate o comunque influenzate, nei limiti e nel rispetto delle norme di legge applicabili, da chi esercita attività di direzione e coordinamento […] ciascun amministratore è tenuto a deliberare in autonomia, assumendo determinazioni che, ragionevolmente, possono portare – quale obiettivo prioritario – alla creazione di valore per la generalità degli azionisti in un orizzonte di medio – lungo periodo”.
Quando dunque si parla di amministratori indipendenti si fa riferimento ad un quid pluris rispetto all’indipendenza di giudizio che è richiesta a tutti i componenti dell’organo gestorio, dal momento che la dichiarazione di possesso di indipendenza da parte di un amministratore si fonda su una valutazione relativa (e non assoluta) che deve essere attualizzata in relazione a una specifica situazione concreta, ponendo in relazione quello specifico amministratore con quella specifica società, in quello specifico momento temporale in cui l’amministratore si dichiara indipendente1.
Negli emittenti con proprietà concentrata (che rappresentano il paradigma italiano) si verifica sovente che al vertice della catena di controllo di un emittente vi sia una società che esercita attività di direzione e coordinamento. In Italia potremmo dunque dire che nella maggior parte dei casi vi è un soggetto che esercita un’attività volta a coordinare e influenzare la gestione, la politica economica e le linee essenziali del business della società partecipata, imprimendo una identità o conformità di indirizzi operativi a una pluralità di soggetti formalmente distinti, di modo che il “gruppo” sia gestito come se si trattasse di una sola impresa (si parla invero anche di “direzione unitaria”).
Per la rilevanza di tale situazione il legislatore ha recepito l’esigenza avvertita da più parti di prevedere forme di pubblicità dell’appartenenza ad un gruppo, al fine di consentire ai soci e ai terzi di valutare i riflessi di tale appartenenza sia sulla società che esercita la direzione unitaria sia, soprattutto, sulle società eterodirette (art. 2497-bis c.c.).
In questi casi, oltre alla nota esigenza (e presidio) di assicurare l’indipendenza di taluni amministratori (i.e. gli indipendenti in senso tecnico) rispetto al comportamento degli amministratori esecutivi, emerge altresì la necessità (e il dovere), nei gruppi, di assicurarsi che sia rispettata e valutata l’autonomia di giudizio di tutti i componenti dell’organo amministrativo dagli azionisti di controllo o dalla società che esercita direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c.2.
Sul punto si segnala anche la previsione del Codice di Autodisciplina (Commento 4.C.2) in forza della quale “l’istituzione di uno o più comitati può essere evitata riservando le relative funzioni all’intero consiglio, sotto il coordinamento del presidente e alle seguenti condizioni: (i) gli amministratori indipendenti rappresentino almeno la metà del consiglio di amministrazione, […]; (ii) all’espletamento delle funzioni che il Codice attribuisce ai comitati medesimi siano dedicati, all’interno delle sedute consiliari, adeguati spazi, dei quali venga dato conto nella relazione sul governo societario; (iii) limitatamente al comitato controllo e rischi, l’emittente non sia controllato da un’altra società quotata, o sottoposto a direzione e coordinamento”.
Proprio quest’ultima previsione evidenzia che in alcune situazioni – ad esempio in costanza di attività di direzione e coordinamento – i presidi di controlli interni, nella specie sotto forma di istituzione di un comitato di controllo e gestione dei rischi, non possono essere evitati o ridotti. In ipotesi di “direzione unitaria” dunque l’esigenza di indipendenza è persino maggiore a quanto avviene nelle società a capitale realmente diffuso.

2. Ciò premesso in termini generali, cerchiamo di valutare come si pone in concreto il problema dell’indipendenza di giudizio nelle società soggette a direzione e coordinamento di un’altra società.
Il tema non è di poco conto per chi ha avuto modo di affrontarlo nella pratica. Può accadere, infatti, che gli amministratori esecutivi tendano a dimenticarsi che sebbene essi siano, o possano essere, permeabili alle direttive impartite dalla holding, essi debbano sempre perseguire l’interesse della società di cui sono stati nominati rappresentanti. In altre parole gli amministratori non indipendenti (e in particolar modo quelli esecutivi) devono sempre valutare la bontà delle direttive che sono loro impartite dalla capogruppo.
In capo agli amministratori di una società eterodiretta permane la libertà (e il dovere) di valutare le indicazioni esterne, in considerazione di quelli che sono gli interessi della società soggetta all’altrui direzione e coordinamento (e ciò eventualmente anche alla luce di quelli che sono i cd. vantaggi compensativi). Certo la situazione diventa più complessa quando gli amministratori esecutivi della holding per ipotesi corrispondano – in tutto o in parte – con gli amministratori esecutivi della controllata (la situazione non è evidentemente censurabile in sé, ma richiede una particolare attenzione); ipotesi che nella realtà non è certo così remota: questa era per esempio la situazione in termini di composizione dell’organo di amministrazione di Ilva S.p.A. prima del commissariamento.
Quello che si vuole dire è che, a parte il caso della coincidenza di amministratori esecutivi della controllante e della controllata, gli amministratori indipendenti che siedono nel board della società eterodiretta non dovrebbero essere gli unici presidi per assicurare il rispetto dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale. Peraltro così facendo si andrebbe ad imporre un onere eccessivo in capo ai medesimi, al quale corrisponderebbe una altrettanto responsabilità eccessiva (si ricordi che ai sensi dell’art. 2497, comma 2°, c.c. vi è una responsabilità solidale con la società dominante di chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo).
A comprova di quanto sopra si pensi alla previsione di cui all’art. 2497-ter c.c. che si occupa specificamente della trasparenza dei processi decisionali dell’organo di amministrazione delle società del gruppo. La norma impone agli amministratori che adottino decisioni sulla scorta dell’influenza della holding di assumere delibere “analiticamente motivate” e che rechino “puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione”. La norma si riferisce a decisioni attraverso le quali si esplica la politica unitaria del gruppo e che possono determinare la responsabilità dell’ente dominante; pertanto dalla motivazione della delibera della società sottoposta si dovrà poter evincere, a posteriori, se l’operazione sia stata giustificata, ad esempio, da legittime valutazioni in materia di vantaggi compensativi.
La motivazione della delibera della società eterodiretta dovrà essere analitica e dunque non potrà essere data attraverso formule generiche o tralatizie (sempre deve prevalere la sostanza sulla forma !), dovrà presupporre un’istruttoria adeguata e contenere un’indicazione completa degli elementi di fatto e valutativi che giustificano l’operazione, anche eventualmente ricorrendo a pareri di esperti indipendenti esterni alla società. Approfondendo il presente scenario ci si dovrà poi chiedere quali effetti possano conseguire ad una carenza o insufficienza di motivazione; se cioè la decisione dell’organo della società dominata sia viziata o sia impugnabile per violazione di legge o se sussista solo un’ipotesi di risarcimento di danno in capo alla società.
Al fine di disciplinare l’esercizio dell’attività di direzione coordinamento molte società hanno adottato regolamenti sulla direzione e coordinamento o anche, genericamente, regolamenti di governance, emanati dalla società capogruppo e generalmente fatti approvare dagli organi di amministrazione delle controllate (al riguardo, sarebbe da meglio valutare se la competenza a deliberare l’adozione di detti regolamenti sia dell’organo di amministrazione o dell’assemblea dei soci). Non ci risulta invece che sia stata particolarmente seguita la strada di stipulare specifici “contratti di coordinamento gerarchico” o di inserire espresse clausole negli statuti delle società che esercitano direzione e coordinamento e in quelle dipendenti (in dottrina si è anche parlato di “diritto di organizzazione” dell’attività di direzione e coordinamento), in esecuzione alla previsione di cui all’art. 2497 septies c.c.
Nella prassi poi si assiste talvolta a regolamenti in materia di esercizio di direzione e coordinamento che addirittura prescrivono, in caso di scostamento dalle direttive impartite dalla holding, un dovere per gli amministratori della eterodiretta di motivare le ragioni di tale decisione. Ci si domanda se previsioni di questo tipo possano scoraggiare (a vantaggio esclusivo della holding) o incentivare l’autonomia di giudizio degli amministratori che come obiettivo prioritario hanno la creazione di valore per la generalità degli azionisti in un orizzonte di medio – lungo periodo. C’è da chiedersi poi quali possano essere gli “strumenti di reazione” in presenza di un eventuale inadempimento, da parte degli amministratori delle società soggette a direzione e coordinamento, alle direttive della capogruppo.

3. In conclusione, si dovrebbe aumentare il livello di attenzione in tutti i casi in cui le decisioni di gestione sono assunte in una sede diversa da quella appropriata, consistente nell’organo di amministrazione della società direttamente interessata dalla decisione: questo comportamento è infatti potenzialmente foriero di danni e dunque potenzialmente censurabile.
Volendo fare un esempio si pensi al rapporto pubblicato da Banca d’Italia dopo l’ispezione conclusasi nelle scorse settimane su Banca Etruria. In questo caso, i funzionari dell’Autorità di Vigilanza hanno ipotizzato che «il consiglio di amministrazione ha per lo più ratificato scelte e decisioni che sono state assunte in altre sedi» e hanno riscontrato un uso improprio della disciplina indicata dall’art. 2391 c.c. in materia di “interessi degli amministratori”: «In alcune sedute del Cda e del Comitato esecutivo si è riscontrata una generica enunciazione nella parte del verbale di “fattispecie ex art. 2391, priva tuttavia dei necessari elementi informativi, in particolare la natura, i termini, le origini e la portata degli interessi».
Così, analogamente nei gruppi, potrebbe essere censurabile il comportamento di quegli amministratori della società eterodiretta che si limitassero a ratificare le decisione, le raccomandazioni o le istruzioni che fossero state assunte in seno dell’organo di amministrazione della società dominante e fossero state loro impartite dalla società che esercita la direzione e coordinamento, senza svolgere la necessaria attività di istruttoria propedeutica a una decisione consapevole.
In definitiva, anche alla luce dei recenti fatti di cronaca, è evidente come sia sempre più importante una consapevolezza in capo a tutti gli amministratori (ivi inclusi quelli esecutivi) di svolgere il proprio incarico mantenendo autonomia di giudizio anche (e soprattutto) quando la società che essi rappresentano si trovi assoggettata a direzione e coordinamento. Ciò, naturalmente, come sopra detto, sarà ancora più difficile quando i rappresentanti della eterodiretta siano altresì i rappresentanti della holding: in questi casi infatti gli amministratori – nella loro veste di rappresentanti della eterodiretta – dovranno sforzarsi maggiormente per emanciparsi da quelli che sono i retro-pensieri dettati dal perseguimento di interessi esclusivi della holding e ancora di più dovranno essere adottati presidi (ad esempio pareri di esperti indipendenti, valutazione di comparables) che assicurino lo svolgimento del business nel rispetto di principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della società eterodiretta.
Tra gli strumenti di mitigazione a quest’ultimo problema di conflitto di interessi si può, ad esempio, raccomandare di evitare la totale (o quasi integrale) coincidenza dei componenti dell’organo di amministrazione della società che esercita la direzione e coordinamento con quelli della società che ne è sottoposta; anche in tali casi infatti, come sopra notato, si potrebbe assistere a superficiali dichiarazioni di interessi ex art. 2391 c.c. con formule generiche e tralatizie.
Come già si è avuto modo di osservare in un precedente articolo riteniamo che la soluzione ai frequenti problemi di governance, che rischiano di essere causa di operazioni censurabili, non sia da trovarsi nell’iper-rafforzamento dei controlli interni o esterni all’organo amministrativo (che rischiano di divenire più formali che sostanziali) bensì nell’adozione di misure pratiche-operative che rendano più snelli ed efficienti i processi decisionali. Ed in conclusione, il conformarsi alle direttive della capogruppo non può e non deve determinare la c.d. l’alienazione convenzionale del governo delle società: questo deve essere un precetto di comportamento per tutti gli amministratori, esecutivi e non.


1 Come rilevato da Assonime nel suo quindicesimo report, La Corporate Governance in Italia: autodisciplina, remunerazioni e comply-or-explain (anno 2015), Note e studi n. 10/2015, il numero degli amministratori indipendenti è in lieve aumento (i.e. 4,1 nel 2015; erano 4 nel 2014 e nel 2013; 3,9 nel 2012; 3,6 nel 2010). Si sta, quindi, manifestando una lenta ridefinizione dei CdA, con un aumento degli amministratori indipendenti e riduzione di quelli non esecutivi non qualificabili come indipendenti in senso tecnico (cfr. A. BUSANI, Amministratori meno incarichi e più informazioni, in Quotidiano del Diritto, Il Sole 24 Ore, 23.12.2015).
2 In un sistema societario a proprietà concentrata come quello italiano dove i cd. “conflitti di agenzia” si manifestano tra azionista di maggioranza e azionista di minoranza l’indipendenza deve essere valutata in rapporto (non agli amministratori esecutivi, ma proprio) al socio di controllo: in questi precipui termini si è espresso U. TOMBARI, Verso uno “statuto speciale” degli amministratori indipendenti (prima considerazioni sul D. Lgs. n. 303/2006 e sulle modifiche al Regolamento Consob in materia di emittenti), in Riv. di Dir. Soc., 3007, 3, p. 60.

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Annapaola Negri-Clementi, (Partner di Negri-Clementi Studio Legale Associato)

Filippo Maria Federici


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