Dura lex
Alcune recenti notizie di stampa mi hanno portato a riflettere sul ruolo del “Chief Restructuring Officer”, anche detto CRO. Bialetti, Indesit, Camuzzi, per citarne alcune, sono tutte realtà in cui si è ritenuto di dover procedere a conferire incarico di
Segnalazione
In calce alla pubblicazione dell’articolo trimestrale della curatrice della rubrica Annapaola Negri-Clementi, abbiamo aggiunto una piccola appendice in cui si parla del dibattito sull'”Insider trading” in corso negli Usa nel quale è intervenuto autorevolmente l’associato Marco Ventoruzzo.
La figura del CRO in fase di ristrutturazione aziendale
Alcune recenti notizie di stampa mi hanno portato a riflettere sul ruolo del “Chief Restructuring Officer”, anche detto CRO. Bialetti, Indesit, Camuzzi, per citarne alcune, sono tutte realtà in cui si è ritenuto di dover procedere a conferire incarico di “Chief Restructuring Officer” o CRO.
Nella letteratura giuridica italiana il CRO non ha ancora trovato una categoria di appartenenza stabile: il CRO a volte è un consulente o è un manager o un consigliere; talvolta è indipendente ma può anche essere dotato di deleghe esecutive; può essere impiegato da emittenti quotate o da PMI.
L’acronimo CRO sta per “Chief Restructuring Officer” e non è invece da confondere, a mio avviso, con l’incarico di “Chief Risk Officer”: ruolo che meglio potrebbe essere identificabile nell’Amministratore Incaricato del Sistema di Controlli Interni o alternativamente nel Presidente del Comitato di Controllo e Gestione dei Rischi.
Il CRO è nato, non a caso, negli Stati Uniti dove il fallimento è un diritto e non un peccato capitale, quale strumento di gestione dei momenti di crisi aziendale, con il compito di portare a compimento la ristrutturazione aziendale con successo. Il CRO è il professionista o la società di consulenza che conosce le dinamiche del fallimento ed è pratico delle misure per evitarlo. Inizialmente, il ruolo di CRO era rivestito da un consulente esterno all’azienda, dunque un “Restructuring Advisor”, professionista persona fisica o società di consulenza. Poi progressivamente il consulente è stato inserito a pieno titolo nel consiglio di amministrazione della società, con l’incarico di amministratore: ciò affinché potesse condividere con il resto dei consiglieri le decisioni e le responsabilità da un lato e il diritto di informazione dall’altro lato.
L’evoluzione della figura del CRO è, per taluni versi, simile a quella degli amministratori indipendenti. Secondo la definizione data dal Cadbury Code essi erano infatti “outsiders directors” ossia amministratori provenienti dall’esterno destinati a portare la loro esperienza, esternamente generatasi, all’interno dell’azienda. Successivamente sono stati definiti “non – executives”, ossia non muniti di deleghe e dunque “indipendenti” nella traduzione italiana del termine inglese.
La nozione, elaborata dalla dottrina, di “indipendenza funzionale” dei consiglieri fornisce, a mio giudizio, una chiave di lettura interessante anche a proposito dell’incarico di CRO. La migliore dottrina ritiene, del tutto condivisibilmente, che l’indipendenza rilevante sia l'”indipendenza da chi esercita il potere all’interno della società, chiunque esso sia”, vale a dire “quella indipendenza che consente all’amministratore di svolgere al meglio la funzione cui esso è chiamato”.
I quesiti che dunque si pongono sono i seguenti: il CRO deve essere un consigliere (che negli emittenti possegga i requisiti per qualificarsi) indipendente ? quale è la funzione cui è chiamato il CRO ? chi esercita il potere in un contesto aziendale caratterizzato da un processo di ristrutturazione ?
Per l’esperienza che si è vista all’estero, e più recentemente in Italia (ad esempio: Lucchini, Stemcor, Camuzzi, Indesit, Bialetti) il CRO interviene in una fase particolare della vita della società, quando gli “interessati” – ossia gli amministratori e in generale tutti gli stakeholders – si trovano ad affrontare l’articolato mondo delle procedure di ristrutturazione: tanto più l’operazione di risanamento è complessa, tanto più diventa necessaria la presenza di un professionista o di una società di consulenza che assuma l’incarico di CRO.
Sempre nell’interesse di tutti gli stakeholders, è a mio avviso essenziale che (i) il compito e la responsabilità del CRO siano ben individuati, (ii) il perimetro della sua attività all’interno dell’azienda sia chiaro e (iii) conseguentemente anche i criteri di remunerazione siano certi e trasparenti.
Gli azionisti e gli altri soggetti coinvolti nel processo di nomina del CRO – il più delle volte si tratta del ceto bancario che ha aderito ad un accordo di ristrutturazione con un sottostante piano industriale o ex art. 67 L.F. – devono decidere l’ampiezza dei poteri di azione che si vogliono attribuire al CRO, affinché questi possa effettivamente perseguire l’obiettivo di riuscita di una operazione definibile come “successful restructuring”. Viene poi da chiedersi quali siano i parametri per parlare di successo del processo di ristrutturazione: esso si misura con il tempo necessario affinché il prezzo per azione ritorni a un “livello equo” o “sano” ? il tempo “giusto” è stimabile in 12 o in 24 o in quanti mesi ? e se così fosse anche il concetto di “livello equo o sano” o di “tempo giusto” dovrebbe possibilmente trovare una definizione nel contratto di CRO.
La competenza e la professionalità del CRO devono coincidere con quanto richiesto dal contratto stipulato con la società. A questo riguardo è da notare che, nella pratica, anche se il contratto è stipulato con la società, l’analisi dei termini e delle condizioni del contratto di CRO e la scelta stessa del professionista che dovrà assumere il ruolo di CRO è spesso una delle condizioni poste dagli Istituti Bancari per la sottoscrizione di accordi di ristrutturazione e/o di standstill.
Il compito del CRO può variare da un’attività di monitoraggio sull’implementazione del piano industriale e finanziario – secondo un modello che potremmo definire “debole” – fino, talvolta, all’assunzione di deleghe in sostituzione o ad integrazione dei precedenti amministratori muniti di deleghe: i “vecchi” amministratori in parte potranno essere mantenuti come memoria storica e in funzione di continuità e in parte, per il motivo esattamente opposto, potranno cessare dalla carica al fine di evidenziare una discontinuità nella gestione aziendale. L’assunzione di deleghe da parte del CRO (che in via di estrema generalizzazione potrebbe far perdere allo stesso la qualifica di “amministratore indipendente”, salvo ogni migliore valutazione di tipo sostanziale) potrebbe essere definito come modello “forte”.
In ogni caso, mi pare di poter osservare che i due modelli e le situazioni che li hanno generati hanno quale comune denominatore la sopravvenuta assenza di fiducia tra gli stakeholder e/o il management e i creditori finanziari (le Banche). E’ anche da notare che il CRO è chiamato a svolgere azioni che potrebbero trovare una forza oppositiva nell’attuale management, che potrebbe sentirsi sotto giudizio da parte del CRO, quasi “spiato” dalle Banche. Il management attuale potrebbe poi non avere piena e consapevole conoscenza di tutte le complicazioni, sostanziali e formali, che ineriscono al processo di ristrutturazione. La funzione dialettica e quella di mediazione tra le parti nonché l’accompagnamento nel processo decisionale si aggiungono dunque al compito di monitoraggio dell’implementazione del piano industriale.
La responsabilità del CRO consiste dunque nel: (i) dotare il processo di ristrutturazione di credibilità per un migliore apprezzamento dell’azienda (piccoli, ma reali, risultati per non abbattere nuovamente la reputazione); (ii) creare stabilità ed essere interlocutore preferenziale delle Banche e degli stakeholders interessati al processo di ristrutturazione; (iii) costruire consenso tra gli stakeholders in merito alla direzione e all’esito del processo di risanamento.
Il CRO dovrà dunque possedere competenze non solo di natura strategica ma anche conoscenze gestionali e finanziarie per seguire e co-gestire anche i cambiamenti operativi. Naturalmente il CRO dovrà anche essere dotato di qualifiche difficilmente sussumibili in categorie giuridiche: egli dovrà essere coraggioso e autorevole.
In merito al regime di responsabilità dell’amministratore incaricato del ruolo di “Chief Restructuring Officer” si deve fare riferimento all’art. 2392 del codice civile (mentre se fosse semplicemente un consulente esterno il CRO avrebbe la responsabilità da contratto d’opera di cui all’art. 2222 del codice civile): anche in questo caso il “nuovo” articolo 2392 (post -riforma del diritto societario) è estremamente adeguato, laddove precisa che gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Si pensi al riguardo all’incarico cui è chiamato il CRO, alla corretta individuazione di esso e alle competenze che specificamente sono richieste a questo soggetto.
Inoltre la responsabilità degli amministratori è sì solidale ma fa eccezione il caso in cui trattasi “di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”. Al riguardo infatti la responsabilità per la gestione esecutiva delegata è solidale di tutti gli amministratori, ma secondo un regime differenziato di responsabilità. Essi sono condebitori solidali di prestazioni differenziate: (i) i delegati sono responsabili direttamente in relazione alle attribuzioni loro delegate; e (ii) i deleganti sono responsabili indirettamente in relazione al(la violazione del) dovere di controllo. La questione da porsi è se l’incarico di “Chief Restructuring Officer” possa qualificarsi come “attività delegata”: in tal caso il CRO potrebbe ritenersi – direttamente – responsabile dell’incarico ricevuto, mentre gli altri consiglieri sarebbero – indirettamente – responsabili del dovere di controllo.
In ogni caso l’interesse che è chiamato a perseguire il CRO, anche se il suo incarico possa essere la diretta conseguenza di un accordo con le Banche, è la ristrutturazione dell’azienda, a beneficio di azionisti, creditori (di ogni tipo e non solo finanziari), dipendenti, pubblica amministrazione, insomma stakeholders in genere. In questo deve consistere il dovere di amministrazione diligente e tutte le declinazioni che la giurisprudenza ha attribuito all’applicazione dell’art. 2392 del codice civile. Il CRO non ha più solo la responsabilità propria di un advisor finanziario o di un consulente legale, ma assume – sedendosi in consiglio di amministrazione – la responsabilità piena dell’amministratore, vieppiù in considerazione del suo particolare incarico e senza dimenticare che diverse possono essere le opzioni cui può esitare il processo di ristrutturazione.
Così il CRO dovrà assumere decisioni in consiglio di amministrazione, assicurarsi di agire effettivamente informato, curare la continua possibilità di accesso al CFO e alla contabilità di dettaglio. Il CRO potrebbe ben trovarsi a verbalizzare eventuali dissensi in riunioni consiliari o potrebbe richiedere di partecipare ad incontri con gli organi di controllo e con la società di revisione; potrebbe essere chiamato a far parte di comitati interni quale il Comitato di Controllo e Gestione dei Rischi o eventuali altri comitati consultivi.
Se il CRO è amministratore che si qualifica come “indipendente”, allora, in relazione alla funzione cui egli è chiamato il CRO , ritengo che questi dovrà essere indipendente da chi può esercitare il potere nel contesto aziendale caratterizzato da un processo di ristrutturazione: le Banche soprattutto e il “vecchio” management che dovesse restare in azienda in minor misura.
L’obiettivo è il perseguimento e la riuscita di un effettivo processo di “successful restructuring”. L’interesse da presidiarsi non è quello di assicurare alle Banche il rientro degli importi finanziati, ma quello superiore di tutela di tutti gli stakeholders interessati al risanamento dell’azienda, che possa tradursi traduca poi sia in un apprezzamento di valore del titolo, sia nella solidità finanziaria della controparte contrattuale di fornitori o di lavoratori subordinati.
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Annapaola Negri-Clementi, (Partner di Negri-Clementi Studio Legale Associato)
L’ Insider Trading negli USA
Mentre in Italia viene ritirato il Decreto Legislativo che avrebbe ridotto l’ambito di applicazione dell’ evasione fiscale, negli USA si discute aspramente sull’illecito di Insider Trading, e in particolare sugli elementi costitutivi della fattispecie.
In proposito, abbiamo letto sul New York Times del 20/12/214 l’articolo di Jim Stewart, il leggendario giornalista finanziario, premio Pulizer (cliccate per leggerlo) http://www.nytimes.com/2014/12/20/business/the-insider-trading-morass.html?ref=business, nel quale si da conto del dibattito in corso aderendo alla tesi sostenuta dal nostro associato Marco Ventoruzzo membro del Comitato dei Saggi NED e del Comitato editoriale di quasta rivista.
(Nota di E.C.)