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Decreto Competitività: fieri dubbi sul voto maggiorato, meno su quello multipo

Nel generale disinteresse, il Decreto Competitività (DL 91/14) ha scardinato una tradizione consolidata nel nostro diritto societario, consentendo che gli Statuti prevedano la maggiorazione dei diritti di voto, oppure la loro moltiplicazione; mentre la

Nel generale disinteresse, il Decreto Competitività (DL 91/14) ha scardinato una tradizione consolidata nel nostro diritto societario, consentendo che gli Statuti prevedano la maggiorazione dei diritti di voto, oppure la loro moltiplicazione; mentre la maggiorazione può arrivare a raddoppiare i diritti di ogni azione, la moltiplicazione massima è di tre voti ognuna.
Cominciamo dalla seconda. Il voto multiplo può essere ammesso solo in società non quotate, ma resta valido se la società sarà successivamente quotata; esso crea una nuova, separata categoria di azioni. Il sistema è stato ampiamente utilizzato negli Usa prima della quotazione di imprese come Google, Facebook, Ali Baba, nelle quali i promotori non volevano trovarsi progressivamente diluiti, fino all’irrilevanza, in caso di successivi aumenti di capitale.
Con il voto maggiorato non si crea, invece, una nuova e separata categoria di azioni, ma chi ne detenga da almeno due anni (termine minimo che gli Statuti potrebbero allungare a piacere) può chiedere due diritti di voto per ogni azione detenuta nel periodo definito. La società registrerà ogni mese il numero dei diritti di voto, che saranno di norma più di 100. Se ad esempio i controllanti di una società con il 30% vantassero voti per il doppio delle azioni e fossero soli a farlo, i diritti diverrebbero 130, dei quali 60 in capo a loro. Chiunque può però chiedere di godere di tale diritto; se venderà le azioni dovrà comunicarlo e la società le cancellerà dal registro delle azioni a voto maggiorato.
Le società già quotate possono modificare lo statuto per introdurre la maggiorazione, con decisione di assemblea straordinaria che, eccezionalmente, fino al 31 gennaio potrà essere approvata a maggioranza semplice, anziché con quella dei due terzi prevista dal Testo Unico della Finanza. Chi dissentisse dalla deliberazione non avrà diritto al recesso: così il DL 91.
Si tratta di due novità assai differenti; nella prospettiva degli investitori, il voto multiplo, riservato a chi non è quotato, non è gran danno. In caso di offerta al pubblico di una società con voto multiplo, essi lo sapranno e se vorranno investire sarà una loro scelta. Anche se una quotata si togliesse dal listino e introducesse il voto multiplo, per poi ri-quotarsi dopo qualche tempo, tale manovra elusiva in realtà non cambierebbe poi tanto.
Diverso il discorso per il voto maggiorato; sulle prime tale novità pare positiva, in quanto spinge, anziché a speculare nel breve, a investire nel lungo periodo. Le famiglie proprietarie delle imprese, dice chi ha voluto le nuove norme, oggi non le quotano temendo di perderne il controllo: potendo raddoppiare i diritti di voto, ora faranno il gran passo. Infine l’argomento che molti credono decisivo; non serviranno più patti di sindacato e scatole cinesi e nessun altro lascerà l’Italia, imitando la Fiat, per più lasche e flessibili giurisdizioni.
A chi scrive la realtà pare diversa. A raddoppiare i diritti di voto saranno certo i gruppi di controllo, stabili per definizione: il DL va bene a loro, non agli investitori istituzionali. Questi non si avvarranno della novità, per loro penalizzante; non vogliono dover fare continue notifiche su migliaia di movimenti, con il rischio di sanzioni, monetarie e reputazionali, per errori di calcolo su basi numeriche in perenne movimento. Per Assogestioni il voto maggiorato può “stabilizzare all’infinito il controllo di alcuni azionisti con la metà dello sforzo”. Anche i rari “cassettisti” residui non vorranno raddoppiare i loro voti, comunque irrilevanti. Lo faranno, oltre ai partecipanti ai patti di sindacato (che restano a disposizione di chi voglia usarli, come le scatole cinesi), solo i rari possessori di blocchi stabili di minoranza, ad esempio i Fossati in Telecom Italia. Se poi qualche emittente pensasse di allungare, ad esempio a 5 anni, il periodo minimo di detenzione, il beneficio per i gruppi di controllo sarebbe esaltato.
L’impossibilità per i dissenzienti di chiedere il recesso e la singolare eccezione prevista per le assemblee fino al 31 gennaio (grazie alla quale i controllanti demoliranno, per sempre, una robusta barriera contro l’appropriazione dei benefici del controllo) mostrano inequivocabilmente a chi giova il voto maggiorato; per facilitarne l’introduzione si arriva a cambiare le regole del gioco in imprese già quotate. Il fatto è che di recente gli investitori istituzionali hanno messo in minoranza i gruppi di controllo su delibere rilevanti. Ora la pagano: che sia questo il favore a chi investe nel lungo termine?
È vero, la possibilità di approvare a maggioranza semplice il raddoppio dei voti scade il 31 gennaio; per allora hanno convocate assemblee solo Amplifon, Astaldi e Campari. Con il voto maggiorato, però, muta il regime delle Offerte Pubbliche d’Acquisto (Opa), già oggetto di altre recenti, improvvide modifiche. In conseguenza della variabilità dei diritti di voto, si può superare la soglia del 30% senza aver comprato nuove azioni; ciò ha creato un labirinto dal quale la Consob è sbucata, varando un complesso regolamento, solo quando mancavano 40 giorni al 31 gennaio. Ciò agevola il lobbying di chi mira a prorogare il termine; ha bisogno di tempo per asfaltare le minoranze. Si spera che almeno non ci siano proroghe!
Il voto maggiorato non cambierà le convenienze di chi vuol imitare i nostri “disertori societari” come li definisce Barack Obama; cosmopoliti ma provinciali, essi ripudiano le proprie origini, ritenute un inciampo. La (brutta) copia sarà per loro peggio dell’originale, anche perché priva della totale flessibilità e di certi succosi optional che questo offre.
Quanto al metodo, è mancata, sul nuovo assetto, un’adeguata riflessione, tecnica e politica, quella che ci fu invece per il Testo Unico della Finanza; è strano, ad esempio, che i voti “maggiorati” possano decidere il destino di un’impresa sotto Opa.
È strano che il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ritenga questo “Un meccanismo utile per una transizione indolore dal capitalismo familiare al capitalismo evoluto”; a me la direzione del moto pare in verità inversa. La Consob sa che le nuove quotazioni non sono frenate tanto dalla riluttanza delle famiglie, quanto dal disinteresse degli investitori per imprese familiari non disposte a mutar pelle, ove è arduo radunare “pacchetti” di rilievo, più arduo ancora venderli. L’esperienza di tanti anni, e anche recente, è univoca e lampante: il problema non è la latitanza dell’offerta, ma della domanda! Il voto maggiorato la ridurrà ancora; peccato che gli istituzionali, che così trascuriamo, detengano poco meno del 50% del capitale delle quotate, gran parte cioè del flottante!
Domanda (retorica) finale: cos’è meglio fare, per smuovere un sistema stagnante come il nostro, “chiudere” gli assetti proprietari delle imprese, o aprirli al cambiamento? Purtroppo noi abbiamo scelto la chiusura. E non sono solo le Fondazioni bancarie, o lo Stato, a voler puntellare periclitanti maggioranze, è anche il capitalismo privato a temere il nuovo che viene da fuori. Della crescita ci si preoccupa sì, ma a corrente alternata.

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Salvatore Bragantini, Membro del Collegio dei Saggi di Nedcommunity e del Comitato Editoriale della Rivista; è stato Commissario Consob e Consigliere Aiaf . È opinionista del Corriere della Sera ([email protected])


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