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Climate change: serve interdisciplinarità per vincere la transizione green

I nuovi obblighi normativi sanciti dalla CSRD e dalla Due diligence directive impongono uno sforzo considerevole al mondo delle imprese: e gli indipendenti dovranno giocare un ruolo da protagonisti

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“Quello del climate change non può essere considerato un tema confinato nell’ambito degli esperti Esg. Per questo motivo il recepimento nel nostro ordinamento della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e l’approvazione della Corporate Due Diligence Directive (CS3D) impongono un approccio interdisciplinare”. L’appello è del presidente di Nedcommunity, Alessandro Carretta, in apertura al convegno Il cambiamento climatico: competenze, ruolo e responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, nato dalla collaborazione tra LUISS School of Law, Chapter Roma di Nedcommunity e Chapter Zero Italy, tenutosi il 20 settembre scorso presso l’ateneo capitolino.

“Si potrebbero individuare tre elementi che meritano un nostro approfondimento – spiega Carretta -. I soggetti coinvolti in questo processo di transizione parlano linguaggi diversi e questi devono essere armonizzati fra loro; il secondo profilo riguarda il tema della collaborazione che, come sappiamo, ha una caratteristica ben precisa: dà i suoi frutti nel tempo ma nel breve termine è costosa; terzo e ultimo aspetto riguarda la capacità di gestire il trade off, di creare cioè dei punti di equilibrio fra obiettivi che possono anche essere divergenti. Ritengo che l’amministratore indipendente sia chiamato a gestire questi profili, essendo un soggetto che deve mediare in virtù della sua natura di attore a cavallo fra il management e l’esterno”.

I giusti strumenti per i ned

Ma come è possibile adempiere agli obblighi normativi in modo corretto? Il primo passo consiste nel disporre degli strumenti giusti che, come ha sottolineato, Gianni Guastella professore associato di Economia applicata dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, External consultant Deloitte Climate and Sustainability, consistono nell’adozione di puntuali analisi di scenario che “non sono delle previsioni sul futuro ma, piuttosto, delle rappresentazioni possibili di futuri legati alle scelte che noi facciamo oggi”. Rispetto al passato con i nuovi standard si sta evidenziando un ”aumento di attenzione non solo sui temi di disclosure, ma anche su quelli più prettamente strategici: le imprese iniziano a internalizzare la necessità di capire rischi e opportunità, non solo per poterle bene rappresentare all’esterno ma soprattutto per prendere decisioni allo scopo di stilare il piano di decarbonizzazione”.

Un quadro sempre più complesso che, come ha sottolineato già il presidente di Nedcommunity, comporta un forte impegno e un aggravio di responsabilità in capo agli amministratori. Su questo aspetto si è soffermata Sabrina Bruno, ordinaria di Diritto commerciale Unical e Luiss G. Carli, membro di Nedcommunity, nonché di Chapter Zero Italy, The Nedcommunity Italian Forum. Dopo aver sottolineato come la CSRD amplii la platea di aziende che dovranno redigere la neo-definita dichiarazione di sostenibilità (da 11mila società soggette all’obbligo di dichiarazione della dichiarazione non finanziaria a 50mila società in Europa, 4mila delle quali italiane), ha ricordato come uno degli obiettivi principali sia la “completa corrispondenza fra informazioni di sostenibilità e di bilancio”. Ma non solo. La disciplina introduce un elemento di grande novità: il concetto di dipendenza dalle risorse. Si pensi all’acqua: considerato che diventerà sempre più scarsa, tale dipendenza rappresenta un rischio nel medio-lungo periodo per le aziende che ne usano in grande quantità che il mercato deve conoscere. Inoltre, le imprese devono adottare un piano di transizione energetica in coerenza con l’accordo di Parigi e con gli obiettivi europei ancora più ambiziosi, di neutralità climatica fissata al 2050. La CSRD è solo una disciplina che prevede obblighi di trasparenza quindi? Assolutamente no: ci sono profonde implicazioni di carattere strategico, in termini di governance, valutazione dei rischi (ERM), decisioni di investimenti, corretta rappresentazione in bilancio. Se nella dichiarazione di sostenibilità viene individuato un rischio, deve essere gestito in base all’art. 2381 comma 3 c.c.; se un’opportunità, deve essere presa in considerazione nell’elaborazione del piano strategico. Altrimenti gli amministratori cagionano un danno al patrimonio sociale: ecco perché aumentano le ipotesi di responsabilità degli amministratori”.

Il nodo della responsabilità

Sulla stessa lunghezza d’onda anche Rita Rolli, associata di Nedcommunity e ordinario di Diritto privato all’Università di Bologna che ribadisce come “si assiste a un’evoluzione del legal framework molto frastagliata che pone interrogativi rispetto alle responsabilità di imprese e amministratori”. “Direttiva due diligence e CSRD – continua – rappresentano due capisaldi dell’approccio alla sostenibilità, sono sinergiche e si parlano. Il dibattito su queste direttive è stato vivace e lo dimostra l’iter di approvazione. In particolare, per quanto riguarda la CSRD le società sono chiamate a integrare nelle strategie aziendali il dovere di diligenza, a redigere piani climatici, codici di condotta, procedure, azioni ex ante ed ex post, ma non solo: devono vincolare un partner diretto al rispetto dei piani di condotta, chiedendo che obblighi a sua volta il fornitore successivo al rispetto di precisi adempimenti in merito al cambiamento climatico”.

Lecito chiedersi quindi che impatto concreto avranno i nuovi obblighi normativi sulla stesura del bilancio? Secondo Giorgio Alessio Acunzo, partner EY, Italy IFRS Reporting Desk Deputy Leader – Italy Sustainability Reporting Desk Leader e docente alla Luiss G. Carli, il rendiconto ha due caratteristiche: deve consentire all’investitore di fare le scelte corrette di investimento e disinvestimento e deve rappresentare uno strumento di valutazione dell’operato del management (stewardship). “Nella sostanza la sostenibilità – spiega – ha introdotto una nuova tipologia di rischi che non eravamo abituati a trattare nella predisposizione dei bilanci e nell’applicazione dei principi contabili. Si amplia così lo spettro delle valutazioni da fare in sede di bilancio: si pensi all’impatto dei maggiori costi energetici o a quelli connessi alle opere per contenere i rischi di alluvione? Come si riflettono nelle valutazioni, ad esempio, per la verifica della recuperabilità del valore delle immobilizzazioni? Quali sono le informazioni e dati che devono essere inseriti in modo chiaro e comprensibile nel bilancio per supportare la comprensione degli investitori? Abbiamo dei criteri generali dettati da standard internazionali che possono venirci in aiuto e dovremo imparare ad utilizzare gli stessi per fattorizzare questi nuovi rischi nel financial reporting. Nasce però un problema di sincronismo che giova tenere a mente tra il framework della sostenibilità e quello del financial reporting: quando parliamo di sostenibilità parliamo molto di piani ed azioni futuri ma nel reporting finanziario il cuore è quanto è accorso in passato e la prospettiva futura è significatamene limitata all’anno di riferimento. Comprendere il diverso orizzonte nei due framework di reporting richiede giudizio e coordinamento anche temporale fra i due poiché un evento potrebbe avere già dignità di essere presentano in uno, ad esempio nel report di sostenibilità, ma non ancora nel bilancio”.

L’importanza di standard condivisi

Per Andrea Cincinnati Cini, head of ESG Solutions CERVED, pur apprezzando lo sforzo europeo di favorire la trasparenza informativa, nella realtà dei fatti siamo ancora in un mondo distante da quello desiderato dal legislatore. Per esempio, i capitali si muovono a livello globale, dobbiamo valutare le imprese sugli standard di rendicontazione che stanno iniziando a diventare piuttosto differenziati fra i diversi continenti: serve maggiore coerenza e interoperabilità. Investitori e regulator chiedono ai risk owner presidio e supervisione sui rischi di cambiamento climatico ma fra le società quotate in Italia soltanto il 47% pubblica un’informativa su Scope 3 (emissioni di gas a effetto serra generate da operazioni di business da fonti che non sono direttamente possedute ndr) che costituiscono la parte prevalente dell’impronta carbonica delle imprese e degli impegni a perseguire traiettorie net zero di decarbonizzazione. In parte perché misurarle è complesso e in parte perché per le imprese è preferibile non fornire una piena rappresentazione degli impatti lungo la value chain. Con la nuova direttiva le cose dovranno necessariamente cambiare essendo esplicitamente previste dai nuovi standard di reporting ESRS”.

Ma il mondo produttivo e finanziario è pronto? Di certo gli invitati alla tavola rotonda moderata da Ines Gandini, componente delconsiglio direttivo di Nedcommunity e del Chapter Roma, si stanno attrezzando. Hanno condiviso le loro esperienze e le azioni messe in atto per affrontare questa sfida Umberto Baldi, Chief Legal Officer & General Counsel di Snam; Franco Doria, Chief Internal Audit Officer di Cementir Holding; Elena Flor, Responsabile ESG e Sustainability di Intesa San Paolo; Benedetta Navarra, associata Nedcommunity/Chapter Roma, Presidente Consiglio di Amministrazione di Italgas e Carlotta Ventura, associata Nedcommunity/Chapter Roma, Direttore Communication, Sustainability and Regional Affair di A2A. Tutte le aziende si sono dimostrate leader nella transizione energetica. Ma gli altri?

Transizione green inevitabile

Ines Gandini ha aperto i lavori della Tavola Rotonda ricordando proprio il dibattito nato dalle parole del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, alla recente assemblea molto critiche nei confronti della transizione verde europea che andrebbe realizzata con un approccio più graduale in modo da consentire a tutti di stare al passo, pena una massiccia perdita di competitività. Concetto rilanciato anche dalla premier Giorgia Meloni nel corso della sua partecipazione all’assemblea 2024 degli industriali nel corso della quale ha definito “autodistruttivo” l’approccio europeo alla transizione ecologica e ha ribadito l’impegno del governo per proteggere l’occupazione e la competitività delle imprese italiane.

Ma Gandini ha anche ricordato le parole del Governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, che nell’indirizzo di saluto alla recente Conferenza G7-International Energy Agency Ensuring an orderly energy transition ha ribadito come la transizione energetica, nonostante le innegabili difficoltà che porta con sé, sia inevitabile e debba essere gestita in modo ordinato. Accanto ai segnali di disaffezione che emergono nel mercato ce ne sono anche di positivi e incoraggianti: gli investimenti in energia pulita oggi nel mondo sono il doppio rispetto a quelli in fonti fossili. D’altronde è ormai pacificamente condiviso nella comunità scientifica che i danni economici di lungo periodo provocati dai cambiamenti climatici e da una transizione energetica disordinata sono superiori ai costi che dovremmo sostenere per attuare gli accordi di Parigi. La domanda è? Come possiamo realizzare questa transizione ordinata e ridurne il costo? Una possibile via di certo è la cooperazione internazionale fra gli Stati e, a livello nazionale, la cooperazione fra pubblico e privato.

Il rischio di un fallimento è dietro l’angolo. Antonio Nuzzo direttore accademico del Master in Diritto d’impresa della Luiss School of Law, non a caso ha chiuso i lavori con uno slogan finale: mala tempora currunt sed peiora parantur, ovvero corrono brutti tempi ma se ne preparano di peggiori. “Dobbiamo prendere atto del cambiamento climatico ma anche muoverci, questo è il senso della disciplina e delle questioni che abbiamo affrontato. Certamente la nuova normativa è potente ma drammaticamente inevitabile: su chi deve gravare tutto questo? Ci sono politiche pubbliche e poi poteri e doveri nel settore privato. L’UE ha preso una linea ma non basta, i mercati sono globali. L’Unione può trainare un sistema ma non è detto che non si trovi da sola alla fine; dall’altra parte la politica industriale deve essere in grado di prendere bene le misure senza scaricare i costi sull’individuo. E tutti questi fattori e queste considerazioni devono essere ben presenti nella mente e nelle valutazioni degli amministratori che poi saranno chiamati a gestire in concreto, assieme e nel cda, i nuovi rischi e la sfida della transizione”.

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