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Ma… i cda “decidono”? Perbacco - penseranno in molti -certamente sì! Stiamo parlando dell’organo di governo dell’azienda… In concreto, gli ambiti nei quali i consigli di amministrazione esercitano davvero la propria capacità decisionale non sono molti,

Steen Thomsen & Martin Conyon, Corporate governance and board decisions, Djof Publishing, Denmark, 2019.

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 Elisabeth Vanderheiden & Claude-Helene Mayer (a cura di), Mistakes, Errors and Failures Across Cultures: Navigating Potentials, Springer Nature, 2020.

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Ma… i cda “decidono”? Perbacco – penseranno in molti -certamente sì! Stiamo parlando dell’organo di governo dell’azienda… In concreto, gli ambiti nei quali i consigli di amministrazione esercitano davvero la propria capacità decisionale non sono molti, almeno a mio parere (e chiedo scusa ai consiglieri di amministrazione), e riguardano principalmente i seguenti fronti: il ruolo di sparring partner del top management e del CEO, in particolare, nella definizione della strategia aziendale (il “board engagement in strategy”); il contributo (decisivo) del cda alla successione del capo azienda e, CEO permettendo, alla definizione del C-level; la responsabilità del sistema dei controlli, con particolare e, ormai quasi ossessiva, attenzione ai rischi. Quanto ampie siano queste attività e quanto davvero “decisive” rispetto al resto del lavoro e delle funzioni svolte dal cda dipende dal contesto istituzionale, dal settore di appartenenza dell’azienda e dalla sua cultura (e da quella del cda in particolare), dallo “stile della casa”, che è spesso dettato dalle caratteristiche personali del CEO.

Delle decisioni dei board si occupa il nuovo libro di Steen Thomsen e di Martin Conyon, Corporate governance and board decisions. Il primo insegna alla Copenhagen Business School, dove ha fondato il Centro per la corporate governance. Il secondo insegna alla Bentley University e alla Wharton School.

Si tratta di un’opera ampia (oltre 400 pagine) e ben articolata, dove trovano spazio tutti i temi classici della corporate governance, collocati in tre parti (aspetti generali; meccanismi della corporate governance; decisioni del board). Il volume ha anche una destinazione didattica ed è quindi scritto con grande chiarezza, senza per questo rinunciare ai necessari approfondimenti, per quanto consentito dall’ampiezza dei temi trattati. Ogni capitolo è corredato da un sommario finale, anche per punti chiave, e da riferimenti bibliografici non banali. Un’opera di iniziazione seria al tema della governance, dove anche gli addetti ai lavori potranno trovare diversi elementi di interesse, se non altro in chiave di sistematizzazione delle proprie conoscenze.

Decidere significa anche sbagliare. Il concetto di errore ci riporta ai rischi ed alle buone pratiche di gestione del rischio, all’eccellenza ed ai risultati (positivi) che la caratterizzano, con il rischio considerato una distribuzione di risultati attesi, all’interno dei quali gli errori sono scontati a monte dalle probabilità di accadimento degli eventi ma non analizzati esplicitamente.

Solo recentemente nella letteratura manageriale è sorta una maggiore attenzione verso gli errori, le inadeguatezze, i comportamenti non corretti o devianti. All’interno delle organizzazioni, gli errori, che sono molto più frequenti di quanto si tenda ad immaginare, minacciano la vita, professionale e non, delle persone, il clima aziendale ed il successo imprenditoriale, la soddisfazione degli azionisti e degli altri stakeholders.

Errori nelle politiche e procedure, comportamenti inadeguati o scorretti delle persone, “fallimenti” nei sistemi manageriali e di controllo rientrano nel concetto di misconduct e delimitano il conduct risk, che è oggetto di attenzione crescente anche da parte delle autorità di controllo dei vari settori. Il conduct risk, al pari degli altri rischi dell’attività aziendale, può distruggere valore, in quanto può comportare perdite economiche (si pensi, ad esempio, agli effetti delle sanzioni comminate dalle autorità di controllo, a seguito dell’inosservanza di norme regolamentari) e reputazionali (si pensi, ad esempio, al calo della fiducia della clientela, di fronte a comportamenti inadeguati dell’azienda). Al tempo stesso, errori e condotte inadeguate possono essere una preziosa fonte di apprendimento per l’organizzazione e le persone. Come dimostra il caso di Cristoforo Colombo, che ricercando una rotta per raggiungere le Indie ha scoperto l’America, gli errori possono avere anche implicazioni positive, in termini di innovazione, apprendimento e miglioramento della resilienza dell’organizzazione.

Le persone in genere sanno cosa è giusto o sbagliato ma spesso nelle organizzazioni si creano condizioni connesse al funzionamento di gruppi (groupthinking), alla distorsione di meccanismi operativi (incentivi), al frazionamento delle responsabilità («non dipende certo da me»…), che rendono quasi impossibile (o certamente molto difficile) per l’individuo prendere decisioni considerando alternative a certi comportamenti che si rivelano lontani da standard di integrità. Al tempo stesso, è indispensabile che vi sia la possibilità di attribuire gli errori a precise responsabilità personali, accompagnata da una accountability senza equivoci e da un enforcement efficace e trasparente. La «traduzione» della compliance in comportamenti passa quindi certamente da una valutazione individuale, che risulta peraltro sempre inserita in un contesto sociale. L’integrità è come un muscolo, va allenata. In questo senso norme dettagliate e chiare, che non lasciano spazio a equivoci, di tipo procedurale e organizzativo più che di tipo sostanziale, potrebbero aiutare, specie in contesti dove la cultura della compliance è più labile.

Le persone vanno accompagnate e aiutate: ci vogliono supporti organizzativi. L’onere della motivazione a un comportamento integro deve spostarsi dall’individuo all’organizzazione. In un contesto organizzativo in grado di fare una “buona” gestione degli errori, il personale non si aspetta di essere semplicemente punito per gli errori fatti ed è più propenso a mettere in campo la propria iniziativa personale e la capacità di sperimentare, a vantaggio della creazione di valore.

Gli errori hanno spesso cause, spiegazioni e manifestazioni differenti, non si fanno “classificare” con facilità. Per capire (e reagire a) gli errori ci vuole un approccio (ed una cultura) al rischio multidisciplinare. La costruzione di una corretta cultura del rischio è un esercizio collettivo: non è solo un problema di competenze tecniche da migliorare. La cultura del rischio deve essere «nel» business e non solo nei controlli, che non rappresentano necessariamente proxy efficaci della cultura. Questa riguarda le decisioni e le azioni di tutti i giorni: il modo, ad esempio, con il quale si condividono le informazioni rilevanti; i soggetti ai quali ci si rivolge quando qualcosa «non funziona»; la capacità di rappresentare il rischio nei vari contesti all’interno dell’organizzazione; la comprensione e l’utilizzo corretto della documentazione. La cultura rappresenta in azienda ciò che ha «funzionato» in passato. Se cambiano le condizioni esterne e interne, anche la cultura deve cambiare, in armonia con il cambiamento strategico dell’azienda, dato che certamente una cultura aziendale obsoleta è un ostacolo alle performance.

Occorre in effetti una cultura aziendale in grado di valorizzare gli errori; ciò può produrre effetti positivi sulle performances. L’”error management” riguarda la corretta comunicazione degli errori avvenuti nell’organizzazione, una condivisione delle conoscenze su questo fronte, un aiuto nelle situazioni critiche, la capacità di cogliere tempestivamente gli errori e gli effetti che possono avere, con la corretta rilevazione dei danni che ne derivano. La diffusione di pratiche “protette” di whistleblowing va in questa direzione.

In questa prospettiva, gli errori, se ben gestiti, contribuiscono positivamente alla creazione di valore.

Per chi è interessato ad approfondire logiche ed implicazioni dell’”errore”, è in via di pubblicazione un’opera certamente originale, Mistakes, Errors and Failures Across Cultures: Navigating Potentials, a cura di Elisabeth Vanderheiden e Claude-Helene Mayer, due scienziate sociali, rispettivamente nel campo della pedagogia e della psicologia industriale e organizzativa.

Il libro discute le conseguenze degli errori a livello individuale, organizzativo e sociale, spaziando da una prospettiva personale ad una globale, con particolare attenzione alle opportunità che possono derivare dagli errori, ed alle strutture, processi e comportamenti più adatti a coglierle. Tra i molti elementi di interesse, emerge chiara la convinzione che ci sono significative differenze culturali nella comprensione, interpretazione e gestione degli errori. Un’opera interdisciplinare piuttosto ampia (32 capitoli, con il contributo di numerosi studiosi e professional, dotati di competenze ed esperienze molto diversificate), nella quale trova posto anche un capitolo su Errors and Failures in European Banking: A Cultural Perspective, scritto da Paola Schwizer, Lucrezia Fattobene e dal sottoscritto.

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Alessandro Carretta, membro del Consiglio Direttivo di Nedcommunity, del Comitato Editoriale della Rivista e curatore di questa rubrica ( [email protected]).


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