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Andare oltre le quote rosa: quando la presenza per legge non basta

La legge Golfo Mosca del 2011, che ha imposto quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate e delle partecipate pubbliche, ha fatto balzare la presenza delle donne nei cda dal 7% al 40% in poco più di dieci anni e reso l’Italia una best practice a livello europeo

Credit: Marco Anselmi

Una misura dirompente che ha effetti ancora oggi, ma che da sola non basta. Cosa si può fare di più? Ne parliamo con Alessia Mosca, membro del consiglio di amministrazione di Crédit Agricole, docente di politica commerciale europea a Sciences Po (Parigi) ed ex politica italiana, co-firmataria della legge che porta il suo nome.

A più di dieci anni dall’introduzione, si può dire che senza dubbio le quote di genere abbiamo cambiato la composizione dei CdA. Ne hanno cambiato anche la cultura e la governance?

“Questa legge ha avuto un impatto immediato e progressivo nel tempo. L’abbiamo introdotta appena pochi mesi dopo la legge gemella francese e, in poco tempo, tra tutte le norme nazionali con la medesima finalità, la nostra si è rivelata quella che ha prodotto la maggior accelerazione di presenza femminile in posti di responsabilità. Ma proprio perché ha “forzato” il processo di nomina dei consiglieri, obbligando ad una maggior ricerca e selezione dei membri del CdA, la Legge ha portato anche un altro elemento di disruption, di tipo culturale. Da allora infatti c’è stato un cambiamento della qualità complessiva della governance, con una maggior diversificazione non solo di genere ma anche di età e competenze, di background accademico e lavorativo a livello internazionale. Più trasparenza e più meritocrazia sono degli effetti collaterali non secondari di questa legge, che ha quindi potenziato anche i processi di governance delle società”.

Ci sono aziende, come le partecipate pubbliche, dove è difficile modificare il sistema di nomine?

“L’elemento più difficile nell’implementazione della legge è quello del monitoraggio e controllo, con l’intervento sanzionatorio laddove non ci sia compliance. A tutt’oggi manca in effetti una mappatura su quali e quante siano le partecipate pubbliche, fatto salvo le più grandi dove è lo Stato centrale ad essere diretto azionista. Ma credo che già porsi il tema della compliance sia un primo passo, e che il processo sia inarrestabile”.

Le donne nei CdA hanno spesso incarichi non esecutivi: cosa si può fare di più perché la presenza si trasformi in “potere”, anche nell’apporto dei consiglieri indipendenti?

“È un processo in fieri ma attenzione che – come ben sa la vostra associazione – indipendenti o non esecutivi non vuol dire senza potere, anzi. I numeri ci dicono che all’interno di un CdA le donne stanno sempre più assumendo la guida di comitati importanti, come quello dei rischi o della sostenibilità”.

Come emerge anche dall’ultimo Global Gender Gap report del WEF, in Italia molto resta da fare. Quali potrebbero essere futuri sviluppi o estensioni della Legge, in base alla tua esperienza?

“Secondo me, oggi può essere il momento di aprire una riflessione per allargare la platea delle aziende interessate – estendendo la legge anche aziende più grandi ma non quotate – ed estendendo le quote anche nei livelli dirigenziali. La Francia lo ha fatto con la legge Rixain, introducendo quote progressive di presenza femminile, ma anche meccanismi di empowerment finanziario. Attenzione però: una legge non può da sola scardinare rigidità diffuse, che richiedono una complessità di approcci”.

Quali sono secondo te gli altri snodi critici e urgenti da affrontare in Italia per aumentare l’occupazione femminile?

“Oltre a sostenere il genere meno rappresentato – le donne – e anzi per farlo con ancora maggior efficacia bisogna coinvolgere gli uomini. Pensiamo per esempio al fatto che il lavoro di cura dei figli e dei genitori anziani resta a carico delle donne: io sono ormai contraria a ogni tipo di policy aziendale che, per sostenere il lavoro femminile, riconosce congedi più lunghi o maggiore flessibilità alle donne. La ritengo una forma di ghettizzazione. Queste policy aziendali devono valere per tutti e tutte, perché la cura deve essere condivisa. Quindi la nuova frontiera per l’occupazione femminile è la responsabilizzazione degli uomini che siano compagni o mariti, o ancora figli di genitori anziani: flessibilità del lavoro e congedi di cura più bilanciati ci potranno fare un altro passo avanti verso la parità di genere. Ma deve essere una battaglia comune, uomini e donne, perché i miglioramenti delle donne nel mondo del lavoro e degli uomini nei carichi di cura vanno di pari passo”.

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