Editoriale

I consigli di amministrazione nella crisi della globalizzazione

Non porsi domande sui rischi geopolitici può essere molto pericoloso: almeno tre volte negli ultimi anni si sono verificati fenomeni, come la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e adesso la guerra, che producono effetti ad ampio raggio, sia spaziali sia temporali

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Nel libro The end of globalization (Princeton 2000) lo storico Harold James ci ha dimostrato che il processo di globalizzazione è reversibile, anzi più di una volta nel passato esso è stato interrotto. Il libro si concentra sulla grande crisi del 1929 che ha determinato il collasso del globalismo nella depressione economica tra le due guerre, ma riferisce che anche nei secoli precedenti comunità internazionali molto sviluppate ed integrate si sono dissolte a seguito di eventi inattesi. Un esempio importante è offerto dalla disintegrazione del sistema economico internazionale altamente interconnesso nell’ultima parte del diciannovesimo secolo. Un altro riguarda il mondo universale Erasmiano del Rinascimento che venne distrutto da Riforma e Controriforma cattolica, le quali determinarono separatismi, provincialismi e frammentazioni.

La globalizzazione, dunque, può finire o almeno in parte interrompersi. Solo negli ultimi 15 anni essa è stata messa a rischio per ben tre volte. La prima è rappresentata dalla grande crisi finanziaria del 2008, che ha provocato una grave recessione economica internazionale minando la fiducia nei mercati finanziari e mostrando come il contagio finanziario possa diffondersi rapidamente in molti stati. Le riforme nazionali che ne sono seguite hanno, in qualche misura, di nuovo frammentato i mercati globali. La seconda volta è quella della pandemia che ha portato non solo ad una recessione economica, ma anche ad una riduzione della circolazione internazionale delle persone per la prevenzione dei contagi da virus, oltre a gravi difficoltà nella produzione di beni e nella logistica internazionale. La pandemia non è ancora finita e verosimilmente altre pandemie seguiranno, di genere diverso, ma con effetti sempre negativi sull’integrazione dei sistemi economici e sociali. La terza e più grave causa di crisi della globalizzazione è la guerra in Ucraina che determina – oltre all’immane tragedia di un popolo violentemente aggredito da un altro – una drastica riduzione del commercio internazionale da e verso gli stati belligeranti, ed una forte reazione del mondo occidentale contro l’aggressore con sanzioni economiche e finanziarie che avranno ripercussioni sul commercio mondiale e sulle nostre economie.

Gli effetti della guerra sulla globalizzazione sono evidenti e resteranno più a lungo di quelli determinati dalla crisi finanziaria e dalla pandemia. Le sanzioni economiche erano già state applicate in altri conflitti altrettanto tragici, ma questo è per tante ragioni più significativo, specialmente per l’Europa, e la misura e l’impatto delle sanzioni sono eccezionali. Soprattutto emerge uno scontro politico tra sistemi democratici e sistemi autoritari, che ovviamente non è nuovo, ma si radicalizza in espressioni anche verbali inconsuete almeno fin dall’epoca della guerra fredda. Il mondo occidentale sembra essersi reso conto improvvisamente di una realtà che già conosceva, ma forse non aveva valutato abbastanza. La globalizzazione economica è avvenuta in contesti politici e sociali non omogenei, coinvolgendo paesi che non sono democratici e non rispettano i diritti umani se non a parole. Molti pensavano che la globalizzazione economica, oltre a generare crescita e profitti, potesse essere un collante che teneva unito il mondo aldilà delle profonde differenze culturali, politiche e sociali. Ma così non è stato e la delusione per molti è profonda, tanto da provocare reazioni che non si vedevano dal dopoguerra, come la maggiore coesione dei paesi occidentali tra loro e la conseguente frammentazione dello scenario politico mondiale.

Tutto ciò genera dubbi profondi sulle ragioni stesse della globalizzazione e sulle prospettive di una sua sopravvivenza, almeno nei termini ai quali ci eravamo abituati. Molti si chiedono cosa succederebbe se le sanzioni economiche dovessero essere per qualche ragione in futuro applicate ad un’economia ancora più grande di quella russa, come quella cinese. Il fatto stesso di ipotizzare una simile circostanza induce le imprese a riflettere sulle possibili conseguenze negative che ne deriverebbero per i loro affari e a cercare strategie alternative. Si continua a ripetere che le imprese dovranno accorciare le loro catene di fornitura per ridurre i rischi di blocchi o intoppi nel processo di globalizzazione. Simili profezie rischiano di autoavverarsi con conseguenti impatti negativi sull’integrazione delle economie mondiali.

Anche i consigli di amministrazione inevitabilmente si pongono questioni “geo-politiche” quando discutono della localizzazione degli affari delle loro imprese o analizzano l’identità dei diversi stakeholder.  Dopo tutto sono questioni di risk management che hanno rilievo strategico, soprattutto per certe imprese. Sono anche questioni di responsabilità sociale dell’impresa, come si è visto in occasione del conflitto russo-ucraino, che ha determinato la fuga di molte imprese occidentali dalla Russia, con perdite ingenti per le imprese stesse e per i loro stakeholder, mentre altre si stanno interrogando sul da farsi. Restare potrebbe essere un modo di tutelare gli stakeholder di queste imprese, lavoratori e clienti soprattutto, anche in vista di un ritorno alla normalità. Andar via avrebbe un significato anche politico di sostegno delle ragioni della democrazia e di critica degli abusi commessi dalle autorità di quel Paese.

Sono temi di CSR che le imprese da tempo affrontano nei loro termini generali, come la possibilità di operare in Paesi che non tutelano i diritti umani o che non reprimono la corruzione rendendosi in qualche modo complici delle violazioni commesse in tali ambiti e in collegamento con le attività svolte in quei paesi per conto dell’impresa interessata. In effetti, potrebbe risultare difficile dichiarare nelle comunicazioni ufficiali che l’impresa si adopera per ridurre i suoi impatti negativi di carattere sociale quando le sue attività si svolgono in contesti che palesemente non agevolano i comportamenti virtuosi, anzi premiano gli abusi e le violazioni di regole solo formalmente enunciate negli Stati ospitanti. Potranno anche i dirigenti non trovarsi esposti a responsabilità sul piano tecnico-legale, ma le conseguenze in termini reputazionali potrebbero essere molto gravi per l’impresa e provocare reazioni da parte dei diversi stakeholder, primi fra tutti gli investitori istituzionali che perseguono logiche di ESG.

In chiusura di questo editoriale, mi rendo conto di avere posto problemi più che offerto soluzioni. Spero tuttavia di avere dato il senso della complessità dei problemi derivanti dalla crisi della globalizzazione e del fatto che non esistono soluzioni valide per ogni situazione. Come sempre, i temi vanno analizzati nel loro contesto tenendo conto delle attività specifiche delle imprese e dei luoghi nei quali esse si svolgono, e le soluzioni di vertice vanno trovate attraverso un confronto con i vari stakeholder e una discussione collegiale nei cda. Gli strumenti per una soluzione esistono e come argomentato qui sopra si trovano nelle pratiche di risk management e soprattutto nella CSR e nell’etica d’impresa che sempre più dimostrano la loro attualità e rilevanza nelle decisioni di carattere strategico dei cda.

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