Punti di vista

La guerra in Ucraina: evento da gestire con competenze specifiche

Il conflitto armato rientra fra i rischi che le aziende, in particolare quelle che vogliono competere sui mercati globali, sono chiamate a mettere nel conto. Ne abbiamo parlato con un esperto di geopolitica

Una nuova guerra incendia il cuore del Vecchio Continente. Il confronto armato fra Russia e Ucraina sembra aver riportato indietro l’orologio della storia a un passato che in molti credevano aver consegnato alla memoria degli eventi irripetibili. E invece, ogni giorno, da quel teatro arrivano immagini che risvegliano ataviche paure. Di moderno e attuale, invece, c’è che il conflitto rientra nel novero di quei rischi che un’azienda che voglia essere in grado di rimanere sul mercato, ormai globale, è chiamata a saper gestire, anche avvalendosi di competenze adeguate. Ne abbiamo parlato con Marco Di Liddo, Responsabile dell’Area Geopolitica e Analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani presso il Ce.S.I.Centro Studi Internazionali.

Dott. Di Liddo lei pensa che stiamo assistendo a una sorta di ritorno al passato in seguito alla decisione della Russia di invadere l’Ucraina?

“Putin ci ha parzialmente riportato indietro nel senso che se noi teniamo lo sguardo soltanto sull’Europa dobbiamo essere consapevoli che l’ultimo conflitto che abbia visto un Paese invaderne un altro è la Seconda Guerra Mondiale con l’attacco della Germania nazista nei confronti della Polonia, nel 1939. Ovviamente da allora le guerre non sono mancate e l’utilizzo della forza armata come strumento di politica estera non è mai cessato, ovunque nel mondo, ma parliamo di conflitti con caratteristiche differenti. Qualche esempio? Pensiamo alla Prima guerra del Golfo del 1991 in cui gli Usa e la coalizione internazionale hanno utilizzato la forza per impedire che Saddam Hussein occupasse il Kuwait, più di recente all’Afghanistan in cui l’azione militare mirava ad abbattere il regime dei Talebani e ancora alla Seconda guerra del Golfo, l’operazione Iraqi Freedom, con una matrice simile, l’abbattimento di un regime non gradito. Nella zona del Caucaso la Russia ha invaso negli anni Novanta la Cecenia per schiacciare il tentativo di quel popolo di rendersi indipendente dalla Federazione e la Georgia nel 2008. In questo caso un Paese che aveva deciso di intraprendere un avvicinamento all’Occidente è stato fermato con la forza. Esattamente quello che è accaduto con l’Ucraina”.

Insomma, la storia sembra ripetersi?

“Sì, ma dei distinguo sono necessari in merito a quanto sta accadendo oggi. Vorrei sottolineare che la Nato non ha puntato un fucile contro la Georgia o l’Ucraina per chiederne l’adesione ma liberamente quei popoli hanno espresso tale desiderio. Ritengo quindi che il modello offerto dall’Occidente e dall’Alleanza atlantica, sia stato giudicato migliore rispetto a quello russo. D’altro canto, da esperto di geopolitica capisco le preoccupazioni di Mosca che vede la propria sfera di influenza erodersi ma le modalità usate per impedirlo sono molto più muscolari di quelle che Usa ed Europa usano per allargare la propria. Diciamolo chiaramente: se la Russia offrisse un modello politico ed economico più florido e attraente non dovrebbe utilizzare il ricatto delle armi”.

Oggi la Russia si è allontanata da quello stesso modello occidentale a cui sembrava ambire dopo la caduta dell’Urss. Si sta isolando avvicinandosi, in una posizione subalterna, alla Cina?

“La Russia non è isolata, a noi piace pensare che lo sia. In realtà metà del mondo parla con la Russia e si tratta di Paesi importanti con economie consolidate come Cina e India o di nazioni meno ricche ma di certo dal peso rilevante nei rispettivi continenti di appartenenza. Mi riferisco in primo luogo al Sud Africa e al Brasile. Per quanto riguarda, invece, una presunta subalternità nei confronti di Pechino, vorrei ricordare che la Russia vanta un’esperienza da superpotenza ben più collaudata e può contare su un enorme arsenale nucleare. Non ci dimentichiamo poi che la Cina ha bisogno di un partner di lungo periodo che possa appoggiare in sede internazionale la propria visione del mondo che di fatto consiste, semplificando, nel superamento del centralismo degli Usa. In sostanza i due Paesi hanno bisogno l’uno dell’altro: la Russia necessita dei capitali cinesi, la Cina delle materie prime russe”.

Cosa pensa delle sanzioni? Stanno funzionando?

“L’economia russa è in sofferenza: si stima che alla fine del 2022 potrebbe arrivare a perdere l’11 per cento del Pil. A livello finanziario sono stati abili ad attenuare l’effetto negativo delle sanzioni ancorando il pagamento del gas al rublo e frenando così la svalutazione della loro moneta ma il vero nodo rimane il rapporto commerciale con Europa: più utile sarebbe applicare l’embargo a carbone, gas e petrolio. Non illudiamoci però: ci vorrà tempo per provare a trovare forniture alternative che riducano l’impatto negativo anche sulle nostre economie, soprattutto se ci riferiamo al mercato del gas. Fondamentali per la politica dell’energia sono le scorte, in questo momento a livello minimo. In primo luogo, dobbiamo ripristinarle e soltanto in un secondo momento pensare di avviare la differenziazione delle fonti di energia. Ma in assenza di una politica coordinata a livello europeo potremmo assistere a forti rialzi dei prezzi. Non illudiamoci però: pagheremo anche noi un costo. Del resto, stiamo facendo la guerra con l’economia ed esattamente come quando si schiera un esercito, delle perdite devono essere messe in conto. Le nostre per fortuna non sono umane ma prendono la forma di impatti economici negativi”.

In questo contesto così particolare quanto sarebbe importante poter contare su una figura competente all’interno delle nostre aziende come il chief geopolitical officer?

“Non possiamo pensare di fare affari all’estero senza conoscere i Paesi in cui vogliamo operare e non possiamo non immaginare che quello che accade nel mondo non influenzi le nostre aziende. Una figura che sia esperta in questo tipo di dinamiche è fondamentale. Dobbiamo stare attenti, però, a chi siede nei cda. Quando si parla di declinazione operativa della geopolitica le diverse professionalità contano: non vanno cooptati divulgatori, persone che sono brave a leggere articoli e a riportarli ma che non vantano esperienza sul campo e soprattutto che non hanno conoscenza diretta dei mercati in cui l’impresa è chiamata a fare business. Il vero analista, chi si occupa del rischio geopolitico, declina naturalmente le relazioni internazionali in qualcosa di operativo. Un fatto è tenere una lezione universitaria, un altro è sedersi al tavolo con un istituto di credito o una multinazionale e spiegare, basandosi su evidenze quanto più oggettive, quali siano i rischi da mettere in conto per un determinato business in un luogo lontano. Per farlo servono strumenti del mestiere specifici come studi di scenario, corretta gestione del rischio, intelligence. Tutte cose che non si improvvisano”.

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