BIBLIOTECA NED a cura di Paola Schwizer
Pierdanilo Beltrami,
“La responsabilità per danni da fusione”,
Giappichelli,
Torino 2008
A cura di Paola Schwizer
Ricercando spunti di approfondimento sul tema delle responsabilità degli amministratori, ho avuto la fortuna di trovare il lavoro di Pierdanilo Beltrami dal titolo “La responsabilità per danni da fusione”, che tratta il profilo poco affrontato dalla dottrina della tutela di azionisti, creditori e altri soggetti a fronte di danni generati da operazioni di finanza straordinaria.
La rilevanza del tema è evidente, in una fase in cui le operazioni di fusione, anche transfrontaliere, hanno manifestato una decisa accelerazione. Per gli amministratori, ciò significa assolvere, nell’iter di approvazione di operazioni di fusione, anche il dovere di adeguata valutazione dei rischi connessi ai danni che la stessa potrebbe provocare ai terzi.
Il tema trova fondamento nell’articolo 2504-quater del Codice Civile: l’invalidità della fusione non può più essere pronunciata, una volta eseguite le iscrizioni dell’atto a norma del secondo comma dell’art. 2504, ma resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione stessa.
Il più frequente esempio di “danno da fusione” è rappresentato dal pregiudizio conseguente all’incongrua determinazione del rapporto di cambio. Come è noto, il legislatore rimette alla discrezionalità degli amministratori (e degli esperti da essi incaricati) l’individuazione dei criteri più adatti per la determinazione del rapporto di cambio, ponendo come unico limite quello della sua congruità, integrato – a livello giurisprudenziale – da quelli di: palese irragionevolezza, fraudolenza, erroneità nel’applicazione dei criteri indicati nel business plan dell’operazione.
L’Autore esamina in dettaglio la natura di tali limiti e i margini esistenti affinché il concambio negoziato possa risultare, in qualche misura, pregiudizievole degli interessi azionisti o di altri stakeholder (primi fra tutti i creditori) e dare adito ad una richiesta di risarcimento. Egli non trascura peraltro ulteriori ipotesi di danno derivante da fusione, quale ad esempio quello da “fusione inopportuna”. Una fusione può essere ritenuta tale, qualora leda il valore delle azioni per effetto della riduzione del patrimonio della società ovvero non lo massimizzi rispetto ad una alternativa e più conveniente operazione dello stesso o di altro tipo. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui gli amministratori prospettino ai soci l’opportunità di una fusione con una società Alfa, con un rapporto di cambio congruo ma non massimizzato, illecitamente tacendo l’esistenza di una possibile fusione alternativa con una società Beta, all’esito della quale il valore delle azioni sarebbe risultato superiore a quello attuale, pur comunque inferiore a quello che sarebbe stato se si fosse scelto il concambio massimo. In questo caso – sostiene l’Autore – la mancata massimizzazione del rapporto di cambio non rileverebbe in quanto tale, poiché l’illecito degli amministratori non sarebbe consistito nell’adozione di un rapporto di cambio inferiore al posto di uno superiore, ma nella scelta di organizzare la fusione con Alfa e non con Beta, da cui deriverebbe un danno da mancata massimizzazione del valore delle azioni per fusione inopportuna e non per mancata massimizzazione del tasso di cambio.
Quanto alle conseguenze del danno, secondo una recente sentenza del Tribunale di Milano, all’invalidità della deliberazione approvativa del progetto di fusione recante determinazione del rapporto di cambio (poi rivelatosi incongruo) consegue, ex art. 2504 quater C.C., la responsabilità diretta e a titolo contrattuale delle società partecipanti alla fusione, cui concorre quella indiretta e a titolo extracontrattuale sempre della società, ma per fatto degli amministratori, in applicazione dell’art. 2049 C.C.. Sul primo fronte, i danni possono essere chiesti alla società nata dalla fusione, sia essa la vecchia società incorporante sia essa la nuova società costituita al fine di succedere alle originarie due società fuse. Sul secondo punto, avendo gli amministratori posto in essere delle irregolarità che determinano l’invalidità della fusione, ancorché questa non possa più essere fatta valere, la società risponde dei danni da essi causati. Questa ricostruzione della fattispecie ha per conseguenza che la società, nei casi in cui sussista la responsabilità degli amministratori, sarà costretta a pagare i danni (ai soci e ai terzi), ma potrà rivalersi internamente nei confronti dei gestori.
L’ipotesi di una causa diretta nei confronti degli amministratori appare invece più remota, ancorché il diritto comunitario, da cui origina la disciplina italiana in materia di fusione, preveda espressamente la possibile responsabilità degli amministratori. Secondo l’art. 20 della direttiva 78/855/CEE, «le legislazioni degli Stati membri disciplinano almeno la responsabilità civile dei membri dell’organo di amministrazione o di direzione della società incorporata nei confronti degli azionisti di questa società in conseguenza di irregolarità di membri di detto organo commesse nella preparazione e nella realizzazione della fusione». E questa disposizione pare consentire ai soci (i terzi non vengono però menzionati) di agire in giudizio direttamente nei confronti degli amministratori.
Ancorché sussista teoricamente la possibilità di intentare due distinte azioni, la prima nei confronti della società per il fatto degli amministratori e la seconda direttamente nei confronti di questi, appare tuttavia improbabile una doppia condanna. Il danno difatti è unico (e consiste, essenzialmente, nella perdita patrimoniale subita da chi agisce) e viene già risarcito direttamente dalla società.
© RIPRODUZIONE RISERVATA