DICIAMO LA NOSTRA a cura della Direzione
Questa rubrica promossa dalla Presidenza intende alimentare un dialogo costruttivo con gli Associati che desiderano dare il loro contributo di idee, suggerimenti e critiche per la crescita della Comunità.
In questo numero ospitiamo l’intervista a Marco Onado (*) che ringraziamo per aver accettato di rispondere alle nostre domande.
Questa è la tredicesima intervista che pubblichiamo nella presente rubrica dedicata al dialogo con gli Associati:
la prima è stata fatta a Gianmaria Gros Pietro nel numero di luglio 2010 (N° 4);
la seconda a Giovanni Maria Garegnani nel numero di ottobre 2010 (N° 5);
la terza a Carolyn Dittmeier nel numero di gennaio 2011 (N°6);
la quarta a Mario Noera nel numero di aprile 2011 (N°7);
la quinta a Maria Luisa Di Battista nel numero di luglio 2011 (N° 8);
la sesta a Ferruccio Carminati nel numero di ottobre 2011 (N° 9);
la settima a Salvatore Maccarone nel numero di gennaio 2012 (N° 10);
l’ottava a Giancarlo Pagliarini nel numero di luglio 2012 (N° 12);
la nona a Marco Cecchi de’ Rossi nel numero di ottobre 2012 (N° 13);
la decima ad Alberto Battecca nel numero di gennaio 2013 (N° 14);
l’undicesima a Roberto Cravero nel numero di aprile 2013 (N° 15);
la dodicesima a Marco Rescigno numero di luglio 2013 (N° 16);
la tredicesima ad Elisabetta Magistretti nel numero di ottobre (N° 17).
L’intervista
Che cosa non va in Italia nella governance?
Va premesso che non esiste paese in cui non si riscontrino con preoccupante frequenza problemi di governance. I paesi anglosassoni che prendiamo a riferimento hanno visto fallimenti clamorosi della governance in occasione degli scandali societari di inizio secolo oppure delle crisi bancarie più recenti. Basti pensare al fallimento di Royal Bank of Scotland affossata da una serie di errori manageriali, tutti approvati entusiasticamente da un board distratto se non connivente. L’acquisto di ABN Amro è stato definito da una commissione di inchiesta “l’affare sbagliato, al prezzo sbagliato, nel momento sbagliato, con le modalità sbagliate”. Un atto di accusa senza scampo per il top management di allora, ma anche per i meccanismi di governance.
La differenza fra Italia e paesi anglosassoni è che questi ultimi hanno pubblicato ampie analisi degli errori commessi e hanno tentato di proporre soluzioni per il futuro. Il rapporto già richiamato su RBS, le indagini parlamentari Usa sugli scandali societari, il rapporto britannico Walker sulla corporate governance delle banche contengono analisi spietate, ma anche suggerimenti su come evitare gli errori del passato.
Questi documenti sono importanti perché aiutano a capire che la governance è una battaglia che si combatte giorno per giorno nelle aziende, nei suoi organi di controllo e nei consigli di amministrazione e che non è fatta solo di norme da rispettare formalmente. E aiutano anche a capire che non basta aggiungere nuove norme (o indicazioni di auto-regolamentazione) per risolvere i problemi. Alla fine così da noi finisce per prevalere una cultura formale anziché sostanziale e ovviamente la corporate governance viene percepita come un fastidioso peso, non come una garanzia di efficienza e rispetto degli interessi di tutti gli azionisti nel lungo termine.
Quali rimedi per migliorare la qualità
Anche il legislatore italiano è vittima di questa cultura più formale che sostanziale e ha reagito ogni volta introducendo nuove norme, creando una stratificazione geologica in cui oggi è difficile capire chi deve fare cosa. Si impone una chiarificazione soprattutto nel sistema dei controlli, in cui oggi operano troppi soggetti con responsabilità sovrapposte: consiglio di amministrazione, comitati di audit e vari, collegi sindacali, organismi di vigilanza e chi più ne ha più ne metta. Bisogna capire che questa moltiplicazione crea solo inefficienze e, quando i problemi emergono, alimenta solo l’allegro gioco dello scarica-barile.
La normativa (e la stessa autodisciplina) è invece carente su un punto essenziale: quello dell’informazione ai consiglieri. Il rapporto Walker ha detto che il vero ruolo del consigliere (e in particolare di quello indipendente) è di “challenge” le proposte del management, cioè di discuterle in modo critico per far emergere tutti gli eventuali punti deboli (che il management ha la tendenza a celare accuratamente). Ma per far questo occorre ricevere informazioni dettagliate e in tempo utile, il che accade assai raramente. E puntualmente, le proposte – anche quelle più critiche – vengono approvate dopo una breve discussione e all’unanimità.
Cosa si aspetta da Nedcommunity e cosa suggerirebbe
Nedcommunity ha svolto un’opera fondamentale di diffusione della cultura della corporate governance e del ruolo dei consiglieri indipendenti. Credo che occorra continuare e rafforzare l’azione fin qui svolta, soprattutto tenendo presente la peculiarità del concetto di amministratore indipendente in un sistema come quello italiano in cui amministratori con tale qualifica sono nominati da un azionista che (da solo o con altri soggetti) esercita il controllo legale sulla società. La conseguenza è che molti di coloro che appaiono indipendenti dal punto di vista formale (e come tali vengono indicati ai fini del rispetto del codice) si comportano come lo sceriffo di “Prima Pagina” di Billy Wilder. Che meritava il titolo di indipendente, ma solo se scritto fra virgolette.
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