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Negli USA: amministratori per grazia del board o volontà degli azionisti?

Aria di riforma per la democrazia societaria negli USA

Il sistema di governance delle società quotate si basa sul rapporto fiduciario tra amministratori e azionisti. La relazione fiduciaria si fonda, a sua volta, sulla possibilità degli azionisti di incidere sulla composizione del cda. Una domanda tormenta però da tempo il diritto societario degli Stati Uniti d’America: sono davvero gli azionisti a scegliere, ed eventualmente sanzionare con la mancata conferma, gli amministratori? Secondo molti, nel modello tradizionale di governo societario americano, la risposta è un deciso “no”. Molte e complesse ragioni, giuridiche ed economiche, farebbero sì che il boarduscente abbia un controllo pressoché totale, salvo in rare ipotesi di scalate ostili, sulla selezione dei nuovi amministratori. L’autoreferenzialità del sistema potrebbe persino indicarsi come una delle principali cause della mancanza di accountability degli amministratori nei confronti degli investitori e considerarsi una causa importante e sottoaciuta della recente crisi finanziaria. 

Insieme allo spettro di questa domanda, si aggira però negli USA anche aria di riforma, nel senso di assicurare maggiore e più incisiva voce agli investitori, in particolare istituzionali, nella nomina del board

Comprendere le ragioni di questa situazione, e come potrebbe evolvere nei prossimi mesi, non è solo importante per apprezzare appieno luci e ombre di un ordinamento importante e profondamente diverso da quello italiano, ma anche per gli spunti di riflessione che ne conseguono per il dibattito europeo e italiano sul ruolo del cda. 


Le regole USA per la CG: l’ordinamento del Delawere 
Occorre allora partire dalle regole tradizionalmente seguite negli Stati Uniti, e in particolare nel Delaware, l’ordinamento al quale è soggetta la maggioranza delle società quotate in America. Si possono individuare tre ragioni principali per la forzata passività degli investitori nelle elezioni del consiglio: il sistema delle deleghe di voto, la maggioranza richiesta per nominare gli amministratori, e la discrezionalità dei brokers nel votare le azioni detenute per conto degli azionisti. 

Sotto il primo profilo, per ragioni che esulano dai confini di questo contributo, nelle assemblee annuali delle società quotate la maggioranza degli azionisti vota tramite deleghe di voto, ossia proxies (per procura). Gli amministratori in carica, tuttavia, dispongono di un notevole vantaggio rispetto agli azionisti in merito alle proposte da sottoporre agli azionisti. Solo il cda, infatti, può inviare agli azionisti proxy solicitations a spese della società, includendo nella delega una propria indicazione di voto. Nel caso delle elezioni degli amministratori, questo si traduce nel fatto che per il board uscente è facile ed economico far circolare moduli di raccolta di voti in cui si indicano unicamente i nomi di candidati graditi (spesso in tutto o in parte coincidenti con i vecchi amministratori). Gli azionisti hanno limitate possibilità di proporre nominativi alternativi. In primo luogo, è a discrezione del consiglio se includere o meno nei proxy statements della società nominativi di amministratori indicati dai soci. Gli azionisti possono sempre condurre, a proprie spese, una proxy fight e far circolare indipendentemente una propria proposta. Ma i costi di questa procedura sono spesso proibitivi anche per i più importanti investitori istituzionali, che inoltre incontrano alcuni possibili ostacoli procedurali, quale ottenere in tempi rapidi una lista aggiornata degli azionisti con diritto di voto ai quali inviare le proprie proposte. Ne consegue che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli unici candidati in lizza sono soggetti preselezionati dal board

Una seconda ragione attiene le maggioranze necessarie per eleggere gli amministratori. I diversi candidati sono votati singolarmente, non per liste, e per ottenere una poltrona in consiglio è sufficiente ottenere la maggioranza relativa dei voti espressi in assemblea, non la maggioranza dei presenti. Come nelle elezioni politiche, voti “contro” un determinato candidato non sono possibili, e le astensioni non incidono sul quorum deliberativo. Ad esempio, se in assemblea è rappresentato un milione di azioni, è possibile – e non del tutto infrequente – che un amministratore sia nominato con sole poche centinaia di voti (al limite anche con uno solo), a condizione che nessun altro candidato ottenga più voti favorevoli. Questo sistema, noto come “plurality voting”, è stato molto criticato, e negli ultimi anni diverse società lo hanno volontariamente modificato, su pressione degli investitori istituzionali e dell’opinione pubblica, adottando il “majority voting”. In base a questo secondo sistema, analogamente a quanto accade in Europa, gli amministratori dovrebbero ottenere la maggioranza dei voti delle azioni rappresentate per entrare nel board. Il modo concreto nel quale questa regola è prevista dagli statuti, tuttavia, è una versione annacquata della regola di maggioranza. Semplificando un po’, solitamente si dispone semplicemente che i candidati preparino una lettera di rinuncia all’incarico nel caso in cui non ottengano la maggioranza assoluta dei voti. È nella discrezione del boarduscente, tuttavia, accettare la rinuncia alla carica. Inutile dire che ciò consente comunque a candidati votati solo da una plurality delle azioni di diventare amministratori. 

Infine, sino a tutto il 2009, in mancanza di istruzioni esplicite da parte degli azionisti, i brokers avevano la facoltà di votare liberamente le azioni detenute nei conti dei propri clienti. Per via dell’apatia razionale degli azionisti, raramente gli intermediari ricevono istiruzioni precise. Per ragioni piuttosto ovvie, i broker di solito si limitano a votare i candidati suggeriti dal cda uscente, con il risultato di facilitare ulteriormente la nomina delle persone sponsorizzate dal management in carica.

Una soluzione a questa autoreferenzialità del consiglio è la vecchia “Wall Street Walk”, votare con i piedi. Gli investitori scontenti possono, in un mercato liquido e ampio, semplicemente vendere le azioni delle società i cui board non li soddisfano e reinvestire in emittenti (ritenuti) più virtuosi. Ma questa elegante uscita non è, per alcuni investitori, la facile passeggiata che comunemente si dice. Investitori istituzionali che detengono pacchetti minoritari ma significativi, ad esempio intorno al 3% delle azioni, non possono rapidamente liquidare il proprio investimento senza causare un terremoto borsistico in grado di deprimere il proprio stesso portafoglio di investimento. Vi sono inoltre, per fare un altro esempio, fondi “passivi” che replicano l’andamento di determinati indici, i quali non possono liberamente alterare la composizione del proprio portafoglio. Per questi ed altri soggetti, un intervento attivo, alzare la voce in assemblea, può essere l’unica strada economicamente percorribile per migliorare le proprie performances. Di qui una crescente pressione per una maggiore democrazia azionaria. 

Complici anche i dubbi generati dalla crisi finanziaria sulla bontà della “corporate America”, le risposte a questa richiesta non si stanno facendo attendere, e potrebbero profondamente modificare il capitalismo manageriale statunitense. 


L’esperimento del Nord Dakota
Una prima mossa è stata fatta da un freddo, isolato, ed economicamente tormentato stato al confine con il Canada: il Nord Dakota. Nel 2007, in gran parte sponsorizzato dall’eclettico investitore Carl Ichan, il Nord Dakota ha adottato una legge societaria caratterizzata da maggiori poteri agli azionisti. In particolare, per quanto qui interessa, il Nord Dakota impone alle società di includere i nomi di candidati amministratori proposti dagli azionisti nelle proxy solicitations fatte a spese della società. Per evitare azioni di disturbo di azionisti minori, possono ottenere l’inclusione di propri candidati solo i soci titolari di almeno il 5% delle azioni ordinarie che siano stati azionisti per almeno 2 anni. Inoltre, nel caso in cui gli azionisti conducano una proxy fight indipendente a proprie spese, la società è tenuta a rimborsarli in proporzione al numero di candidati eletti rispetto a quelli proposti. Se, ad esempio, un fondo pensione spende 1,200,000 $ per una campagna nella quale propone tre candidati, e due sono nominati, avrà diritto a ricevere dalla società 800,000 $. La nuova legge del Nord Dakota, inoltre, favorisce il majority voting rispetto al plurality voting. Il legislatore del Nord Dakota spera, in questo modo, di attrarre società attualmente incorporate in Delaware che, su pressione degli investitori istituzionali, si potrebbero reincorporare (senza modificare la propria sede reale) nel nuovo stato, garantendo un afflusso di entrate tributarie grazie alla franchise tax

È molto dubbio che l’esperimento del Nord Dakota abbia particolare successo: la leadership del Delaware è difficile da scalfire per numerose ragioni, incluso il fatto che la stessa decisione di modificare lo stato di incorporazione dipende sostanzialmente dalla volontà del consiglio. In effetti, sino ad ora una sola società si é trasferita nel poco conosciuto stato del nord. Si tratta però di un esperimento significativo sul piano teorico e, soprattutto, attentamente osservato dal governo federale. 


Intenzioni SEC – proposte di legge – abolizione del voto discrezionale dei brokers 
Sia la Sec, sia due proposte legislative attualmente pendenti presso il congresso americano, seguono sostanzialmente – pur con qualche differenza – le orme del Nord Dakota. La Sec, in particolare, pare intenzionata a consentire agli azionisti che detengano determinate percentuali minime di azioni di proporre propri candidati al consiglio a spese della società. Se alcune di queste proposte verranno approvate, le norme federali imporranno anche alle società del Delaware di riconoscere un ruolo maggiore agli azionisti nella nomina degli amministratori. 

D’altro lato, lo stesso legislatore del Delaware non è insensibile al rischio di un intervento federale, che potrebbe minacciare la propria supremazia nel campo del diritto societario. Proprio la scorsa estate il Delaware ha introdotto alcune nuove regole in tema di proxy voting modellate sulle previsioni del Nord Dakota. Si tratta, tuttavia, di norme “deboli” in quanto non imperative: semplicemente, si chiarisce che le società possono adottarle nei propri statuti tramite un meccanismo di opt-in. Ma, come anche l’esperienza italiana dimostra, è abbastanza raro che chi controlla la società si spogli volontariamente delle proprie leve di potere introducendo clausole statutarie a favore degli azionisti minoritari. 

Un’altra importante novità recente, nella direzione di limare gli artigli del board nella selezione degli amministratori, è stata l’abolizione da parte del NYSE del voto discrezionale dei brokers nelle elezioni del cda. Anche in mancanza di istruzioni da parte degli azionisti, gli intermediari non si potranno più – a partire dalla stagione assembleare 2010 – accodare alle proposte di candidati fatte dal board uscente. Anche questo tassello può ridurre lo strapotere dei managers nel controllare la composizione del board

Nei prossimi mesi, se non settimane, si vedrà se queste proposte di riforma sono solo un fuoco di paglia, destinato a perdere mordente con il passare del tempo e l’allontanarsi della crisi finanziaria, o diverranno legge. In quest’ultimo caso, uno dei risultati che si possono prevedere è un incremento significativo di amministratori “di minoranza”, ossia scelti dagli azionisti e non dal management, nei boards delle società quotate americane. Insomma, per quanto profonde le differenze, la conseguenza concreta potrebbe essere un sistema che ricorda da lontano quello italiano, nel quale minoranze organizzate di investitori hanno la possibilità di nominare non-executive directors di proprio gradimento. Che siano gli Stati Uniti, per una volta, a imitare il diritto societario italiano?

Difficile prevedere gli effetti di lungo termine di queste riforme e proposte. Una cosa però appare sicura: l’era dei “king-CEO”, titolari quasi di un’investitura divina in quanto protetti da un board poco dipendente dal voto degli azionisti, potrebbe essere sulla via del tramonto. 

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