FALSI MITI DELL’INFORMAZIONE NON FINANZIARIA
di Cesare Saccani (*)
Un’altra lunga giornata di lavoro è finita e ho spento la luce prima di addormentarmi. Nel mio ruolo di Amministratore Indipendente domani andrò in ufficio per apporre la firma sul bilancio e su un documento chiamato DNF (Dichiarazione Non Finanziaria). La nostra società ha più di 500 dipendenti, un fatturato superiore a 40 milioni di euro ed è quotata alla Borsa di Milano, quindi ha l’obbligo di redigere la DNF ai sensi della Direttiva 2014/95 (in Italia legge 254/2016).
Lo scorso anno ho firmato la DNF confidando sulle informazioni ricevute dal nostro Amministratore Delegato e dal management. Il nostro legale ci ha spiegato che le maglie della Direttiva sono ancora piuttosto larghe e il sistema sanzionatorio molto blando quindi ho firmato senza patemi.
Giorni fa, durante un aperitivo al bar, un collega mi ha fatto notare due aspetti che non avevo considerato a fondo. La legge 254/2016 specifica che la DNF deve rappresentare i rischi che non riguardano solo le attività dell’impresa, dei suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali ma si estendono anche a quelli lungo le filiere di fornitura e sub-appalto (art.3.1.c). L’altro è che la legge richiede una valutazione di “impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine sull’ambiente nonché sulla salute e sicurezza” (art.3.2.c).
Ora, alla vigilia della mia firma sulla DNF, affiorano alla mia mente assonnata alcuni pensieri.
Ripenso al nostro business model: headquarter in Italia, unità produttive in Italia e all’estero, gamma diversificata di prodotti in parte destinati a clienti business e in parte al consumatore finale attraverso diversi canali di vendita (incluse vendite on line). Da tempo adottiamo politiche che perseguono il rispetto dei diritti umani e di decenti condizioni di lavoro con attenzione a tutti gli aspetti della salute e sicurezza, dell’ambiente e delle corrette pratiche di business perché il nostro modo di fare business è dannatamente più complicato rispetto al passato.
Da un lato le nostre filiere di fornitura sono sempre più allungate e frammentate in diversi paesi in Asia, area mediterranea (Turchia, Tunisia, Marocco), Sud America (Colombia) e Centro America (Messico). Il mondo della produzione di beni e servizi si allontana dal luogo del consumo.
Dall’altro abbiamo i clienti e consumatori finali (soprattutto Millennials e GenZ) sempre più sensibili alle informazioni sulla sostenibilità dei prodotti e sulla responsabilità sociale dei luoghi in cui essi sono realizzati. Una recente ricerca condotta da PWC ha rivelato che l’85% dei giovani consumatori acquista “on-line” e desidera informazioni all’atto dell’acquisto. La credibilità e affidabilità delle informazioni non finanziarie sta assumendo un peso relativo di quello delle informazioni sul prodotto.
Nel “villaggio globale” l’aumento della distanza tra il luogo di consumo e quello della produzione è compensato dall’aumento della velocità con cui le informazioni circolano lungo le fibre ottiche.
La combinazione dei processi di globalizzazione, di circolazione di informazioni, dell’attivismo di NGO (talvolta fin troppo aggressive nella denuncia) e dell’attenzione delle giovani generazioni ai social media espone marchi e prodotti di aziende occidentali a enormi rischi reputazionali e costi inattesi che possono minare fortemente la credibilità del marchio.
Persino la propaganda politica rischia di generare entropia quando, per esempio, cerca di influenzare l’acquisto di un prodotto come la Nutella perché realizzato con mandorle non italiane senza considerare che il marchio Ferrero è al 1° posto tra i marchi nel settore Food per reputazione su scala globale nella classifica Global Top Rank 2019 promossa dal Reputation Institute.
Costruire la forza e la reputazione di un brand richiede decenni di grandi sforzi ma sono sufficienti pochi giorni per distruggerne il valore. Viviamo nell’era della reputazione e della gestione attiva del rischio reputazionale, ma non sembriamo esserne consapevoli e preparati.
Sto per crollare nel sonno quando improvvisamente affiorano nella mente ricordi lontani. Oggi se una fabbrica in una remota zona del Pakistan o della Cambogia crolla o prende fuoco oppure se una fabbrica in India scarica coloranti e altri prodotti chimici nocivi inquinando le acque e l’ambiente, l’informazione circola velocemente sui media. Il nome di marchi e prodotti legati a tali eventi rimbalza si diffonde in tempo reale sospinto dall’attivismo di NGOs organizzate. Per esempio, nel drammatico crollo del Rana Plaza le conseguenze non furono drammatiche solo per le vittime ma anche per marchi quali Walmart, Disney, Primark i cui capi furono trovati tra le macerie. L’effetto si riverberò subito sui mercati e partirono class actions con costi finanziari e danni reputazionali ingenti.
Improvvisamente mi assale una domanda. La nostra DNF è adeguata a mettermi al riparo da profili di responsabilità qualora, presso uno dei nostri fornitori, si verificasse un evento con impatti avversi sulla nostra società? Quali sono le responsabilità della mia firma sulla DNF?
Un brivido gelido attraversa il mio corpo e mi ritrovo sveglio con gli occhi spalancati a riflettere.
Le informazioni su cui si basa la nostra DNF sono credibili ed affidabili? Esprimono in modo affidabile il livello di rischio a cui è esposta la mia società per eventi che accadono lungo la filiera di fornitura?
Fino ad oggi pensavo che problemi e rischi sociali (diritti umani e condizioni di lavoro) ambientali, di sicurezza e governance ricadessero tra le responsabilità dei nostri managers incuso il CSR manager. Ora realizzo che la responsabilità di queste informazioni è in capo al Board e al sottoscritto.
I miei colleghi Amministratori dormono tranquilli? Ripenso alla ricerca condotta da CONSOB con NED Community su 228 società Italiane quotate alla Borsa Italiana. Sebbene gran parte delle società avesse predisposto una DNF, in realtà la maggioranza (139 società) si era limitata a riportare minime informazioni necessarie per assicurare la conformità ai requisiti della norma e solo una minoranza aveva predisposto dei rapporti veri e propri di sostenibilità. Le società avevano svolto l’analisi di materialità (ad eccezione di 2), ma il dato allarmante era nel fatto che nessuna delle 151 società aveva inserito i risultati dell’analisi di materialità nel piano strategico.
Nel nostro modello di business, processi e prodotti i profili ESG lungo le filiere di fornitura sono ancora più rilevanti di quelli che gestiamo direttamente all’interno del perimetro della società: sono stati identificati correttamente gli aspetti rilevanti lungo la filiera di fornitura che possono impattare sulla nostra società?
Il quesito richiama l’altro punto da me sottostimato: la legge 254/2016 richiede una rappresentazione delle modalità di gestione degli aspetti di sostenibilità e responsabilità sociale non solo aggiornata ad oggi ma soprattutto orientata alla valutazione dei rischi futuri.
Afferro solo ora la rilevanza del passaggio: le informazioni che rappresentiamo sono utili alla valutazione del rischio atteso in futuro?
Il dato di una ricerca condotta da KPMG in collaborazione con NED Community su un campione di 205 società conferma il dato emerso dalla ricerca CONSOB: il 75% del campione utilizza GRI.
Il GRI Framework è il più noto standard a livello internazionale per armonizzare la rappresentazione delle informazioni relative alla Governance e ai diversi aspetti della sostenibilità. Anche la nostra società ha deciso di affidare a una nota società di consulenza l’incarico di predisporre il rapporto di sostenibilità utilizzando questo standard. Le ricerche sono confortanti: non siamo gli unici.
Tuttavia il pensiero di un evento come il Rana Plaza apre nuovi quesiti: il rapporto conforme al modello GRI risponde ai requisiti della Direttiva 2014/95 (e D.Lgs.254/2016) e rappresenta la stima dei rischi futuri?
E’ notte fonda, il silenzio mi avvolge, mia moglie dorme serena ma io sono sveglio come un grillo, nervoso, e decido di fare qualche ricerca su Internet.
Apro il documento GRI 101 Foundation e nell’introduzione leggo: “ The GRI Sustainability Reporting Standards (GRI Standards) are designed to be used by organizations to report about their impacts on the economy, the environment, and/or society” . Realizzo che lo standard GRI riguarda gli impatti della nostra società ma non indirizza con altrettanta chiarezza la valutazione dei rischi ESG lungo le nostre catene di fornitura. Il documento GRI 104 “Procurement Practices” richiede informazioni base sull’approccio per la gestione dei fornitori e qualche indicatore relativo alla distribuzione geografica, al budget relativo agli acquisti per paese/prodotto/fornitore e la definizione delle “significant locations for operations”.
Dobbiamo integrarlo.
Proseguo incuriosito e apro per esempio lo standard GRI 403 “occupational health and safety”. La prima parte contiene indicazioni sul sistema di gestione e nella seconda parte elenca alcuni indicatori sul numero di lavoratori infortunati nel periodo precedente. Rileggendo i requisiti da rivelare non vedo problemi perché la nostra società ha implementato da tempo (e ottenuto la certificazione) un sistema di gestione della salute e sicurezza conforme alla norma ISO 45001 (e anche ISO 14001).
Ma se volessi comunicare informazioni sull’effettivo livello di rischio incendio, esplosione o crollo strutturale di uno dei nostri fornitori il Sustainability Reporting riferito allo standard GRI è sufficiente?
A notte fonda realizzo di avere coltivato fino ad oggi una grande illusione. Il rapporto di sostenibilità consente di comunicare le strategie e gli approcci manageriali attuati e i risultati raggiunti dalla nostra società, ma non soddisfa appieno i requisiti della Direttiva 2014/95 perchè:
- l’oggetto d’analisi non considera le filiere di fornitura ma solo la nostra organizzazione
- il rapporto ha un focus sul sistema di gestione implementato ad oggi e sui suoi risultati
- gli indicatori e i dati raccolti non fanno luce sui rischi futuri
Così come nessun investitore si sogna di valutare i rischi di business futuri basandosi solo dalla lettura dei bilanci degli anni precedenti anche la lettura di un Sustainability Reporting non consente una valutazione di rischi ESG lungo le filiere di fornitura.
Forse non sarò il primo ad averlo capito ma penso di non essere l’unico: impossibile guidare una vettura guardando un cruscotto informativo che prende dati dallo specchietto retrovisore.
I pensieri si rincorrono e riaffiorano frammenti di frasi udite in passato. Un collega a cui chiesi se si fidasse dei dati forniti nel Sustainability Reporting mi rispose con sufficienza: “Si, abbiamo persino chiesto a un noto organismo di certificazione di effettuare una External Assurance”. Cerco ulteriori informazioni sul GRI e trovo la descrizione dell’External Assurance”: una verifica di documentale sulla completezza e accuratezza dei metodi di calcolo degli indicatori rispetto allo standard.
Continuo a pensare. Posso chiedere agli oltre 500 fornitori della mia società, sparsi nel mondo, di redigere un Sustainability Reporting? Chi mi assicura la credibilità e l’affidabilità del dato dichiarato? Può essere sufficiente il sistema di controllo descritto nel report del fornitore per stimare il rischio di un futuro danno ambientale provocato dallo scarico di sostanze inquinanti in acqua o nel suolo?
I dubbi crescono. Sono convinto che il costo sostenuto per redigere il Sustainability Reporting sia stato utile per rappresentare in modo organico le azioni svolte e i risultati ottenuti nel perimetro della nostra società, ma ora non mi pare più sufficiente a soddisfare i requisiti della Direttiva 2014/95 soprattutto per quanto riguarda i profili ESG lungo le filiere di fornitura in prospettiva futura.
Strana coincidenza, ma dopo la pubblicazione della ricerca di CONSOB sono seguiti in rapida successione documenti che ora assumono i contorni di una sequenza non casuale.
Nel maggio del 2019, Banca d’Italia decide di modificare le modalità di gestione degli investimenti finanziari attribuendo un peso maggiore ai fattori che favoriscono una crescita sostenibile, attenta alla società e all’ambiente. Aumenteranno quindi le risorse destinate alle imprese con migliori prassi ambientali, sociali e di governance (i fattori ESG).
In questa logica Banca d’Italia decide di:
- escludere dall’universo investibile le società che operano prevalentemente in settori non conformi ai principi dell’UN Global Compact;
- privilegiare le società con i punteggi (score) migliori sui profili ESG, secondo la valutazione compiuta da una società specializzata (approccio “best in class”), opportunamente selezionata.
Logiche simili di valutazione del rischio di investimento sono diffuse nel mondo del Private Equity e penso che presto saranno considerate anche dalle Banche nella valutazione del rischio di credito.
Rileggo il recente documento del CNDCEC (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) (2019) ove evidenzia che “ Il tema dell’asseverazione esterna dei report CR acquisisce importanza crescente nei mercati globali in parallelo al crescere dell’esigenza degli stakeholder di un aumento nella credibilità e nell’intellegibilità delle informazioni di sostenibilità. I mercati finanziari, in particolare, fondano il proprio funzionamento su dati economico-finanziari credibili e verificabili, circostanza per cui i regulator e gli operatori cercano di sviluppare meccanismi di validazione indipendente delle informazioni pubbliche, sia economico-finanziarie sia non finanziarie. Molti operatori, quindi, assegnano all’asseverazione di terze parti indipendenti una funzione strumentale essenziale nello sviluppo pratico del sistema e nella propagazione dei benefici insiti nel sustainability reporting”.
Il CNDCEC sottolinea anche che “Il sistema di vigilanza deve seguire un sistema di selezione impostato su un risk approach, ossia basato sull’identificazione e la valutazione del rischio che il mancato rispetto della normativa e dei principi di corretta amministrazione può comportare. … in merito ad aspetti prettamente connessi alla DNF, il Collegio Sindacale deve porre particolare attenzione nel vigilare che:
- gli obiettivi strategici siano compatibili con i rischi identificati (natura e livello);
il modello di risk management, laddove adottato, possa identificare, misurare, gestire e monitorare i principali rischi che possano assumere rilievo anche nell’ottica della sostenibilità di medio-lungo periodo dell’attività della società. ”
E’ quasi mattina e le implicazioni del D.Lgs.254/2016 cominciano a delinearsi con più nitidezza.
In primo luogo, mi è chiaro che gli Amministratori hanno un ruolo sempre più attivo nella valutazione dei profili ESG. In secondo luogo, i profili ESG non possono limitarsi al perimetro della nostra società, ma devono estendersi alle filiere di fornitura. Infine, il focus della DNF deve essere sempre più spostato sulla valutazione del rischio futuro rispetto alla rendicontazione di fatti e risultati del passato e da più parti si chiede che le valutazioni siano fatte da terze parti indipendenti.
In quest’ottica rileggo il nostro Sustainability Reporting per capire meglio il nostro approccio al sistema di controllo dei rischi lungo le filiere di fornitura. La responsabilità dei controlli sui rischi relativi ai diritti umani e condizioni di lavoro, salute e sicurezza, ambiente e corrette pratiche commerciali al nostro interno è affidata al CSR manager.
Scorrendo il report rilevo che il nostro sistema di controllo è basato su alcuni pilastri:
- auto-dichiarazioni dei fabbricanti basate sulla compilazione di questionari messi a punto dalla nostra società (controlli di prima parte);
- verifiche condotte sui fabbricanti da parte del nostro personale (controlli di seconda parte).
- richiesta ai fornitori di certificazioni di terza parte indipendente sul sistema di gestione tra cui SA 8000 per la social accountability, ISO 14001 per l’ambiente e ISO 45001 (ex OHSAS 18001) per la salute e sicurezza oppure altri schemi proprietari promossi da questa o quella NGO;
- richiesta ai fornitori di dichiarazioni e, ove possibile, certificazioni sul prodotto relative alle caratteristiche ambientali e di sicurezza per tutelare il cliente e il consumatore
- sistemi di tracciabilità e riferibilità dei prodotti e dei loro componenti.
Comincio a riflettere sul nostro sistema.
Il primo pilastro si basa su questionari di valutazione sviluppati dall’ufficio CSR in collaborazione con la Direzione Acquisti. Li inviamo a tutti i fornitori, nuovi ed esistenti, per raccogliere una serie di informazioni. Il fornitore li compila assumendosi la responsabilità delle informazioni fornite. Sapendo che la nostra società ha un consistente volume di acquisti e che siamo un cliente interessante per i nostri fornitori possiamo fidarci delle dichiarazioni fornite dai fornitori stessi? Quanta probabilità abbiamo che un fornitore Indiano, Messicano o Vietnamita dichiari spontaneamente di avere dei problemi in ambito di sostenibilità o responsabilità sociale, correndo il rischio di perdere un cliente come noi? Poca, credo.
Per questo ragione il responsabile CSR ha sviluppato un sistema di audit sui fornitori, personalizzato in base ai nostri requisiti. Il budget annuale per questi controlli è crescente: costi fissi di personale, costi di consulenza (per il sistema di valutazione), costi di formazione, spese di viaggio, software, etc. Su questo mi pongo alcune domande: il nostro sistema sarà adeguato allo scopo? Il nostro sistema di valutazione fa riferimento a linee guida e standard riconosciuti a livello internazionale? Le competenze del nostro personale che svolge gli audit sono adeguate a valutare i molteplici aspetti sociali, sicurezza, ambientali in ottica di rischio futuro? I nostri metodi di conduzione degli audit sono adeguati? Ci sono pericoli di influenze sugli auditor che possono compromettere l’affidabilità delle valutazioni? Ci sono conflitti di interesse tra la direzione CSR e la direzione acquisti? Se un fornitore chiave presenta un profilo ESG elevato ma per la nostra direzione acquisti è ottimo per qualità e prezzo prevale l’interesse del responsabile acquisti o del responsabile CSR? In ultima istanza i costi per questi controlli hanno senso?
Tante domande riconducibili a una sola: il nostro approccio è in grado di produrre informazioni credibili e affidabili sui rischi non finanziari lungo le filiere di fornitura per la nostra DNF?
Ritrovo un primo spunto in un documento del Parlamento Europeo (2017) evidenzia che “le iniziative (di prima e seconda parte) avviate, negli ultimi 20 anni, dal settore privato su base volontaria, come codici di condotta, etichette, autovalutazioni e audit sociali, pur avendo offerto quadri essenziali per la collaborazione in questioni quali la salute e la sicurezza sul lavoro, non si sono dimostrate abbastanza efficaci nel determinare un vero miglioramento circa i diritti dei lavoratori, segnatamente in termini di rispetto dei diritti umani e della parità di genere, aumento del numero dei diritti dei lavoratori, consapevolezza dei consumatori, nonché standard ambientali e sicurezza e sostenibilità nella catena di approvvigionamento nel settore dell’abbigliamento“.
Anche recenti indagini giornalistiche hanno messo in luce l’inadeguatezza del sistema dei controlli lungo le filiere di forniture. I dubbi crescono e sorpassano le certezze.
Il terzo pilastro è costituito dalla richiesta di certificazioni di terza parte indipendente sui sistemi di gestione dei fornitori. Queste certificazioni hanno molteplici vantaggi: sono riferite a standard internazionali (norme ISO), sono rilasciate da organismi di certificazione accreditati, sono riconosciute a livello internazionale e forniscono un’idea su “come” il fornitore gestisca la qualità, l’ambiente, la sicurezza, o gli aspetti sociali, ed infine prevedono delle sorveglianze periodiche.
Sono necessarie? Sebbene volontarie la nostra azienda le richiede perché danno un’idea del livello di maturità di un fornitore nel definire e implementare un sistema di gestione per i rischi relativi alla sicurezza, ambiente e social accountability sottoponendosi a un audit esterno con sorveglianze.
Sono sufficienti per stimare l’esposizione ai rischi futuri come previsto della Direttiva 95/2014?
Ho i miei dubbi. Il minimo comune denominatore di tutte le norme ISO sistema di gestione è costituito dalla implementazione di un sistema di risk management. Posso essere sicuro che, a parte la correttezza formale dell’approccio, il fornitore abbia identificato tutti i rischi rilevanti? I rischi sono valutati con una metodologia adeguata? Il trattamento rischi è corretto? Il sistema di monitoraggio e riesame periodico sarà efficace?
Mi sovviene un rapporto di Audit SA 8000 in cui si segnalava la presenza di porte di emergenza ostruite da imballi di prodotti e di estintori non mantenuti in modo appropriato. Le conclusioni raccomandavano intraprendere azioni correttive che sarebbero state verificate nella successiva sorveglianza. E se per caso fosse scoppiato un incendio pochi giorni dopo l’audit? Quali rischi di costi inattesi avremmo corso a causa dell’immediata propagazione dell’informazione?
Le certificazioni di terza parte sul sistema di gestione dei fornitori sono necessarie per avere un quadro informativo di base, ma temo non siano sufficienti per valutare i profili di rischio ESG che possono risultare in impatti avversi futuri come richiesto dai documenti del CNDCEC.
E’ mattina, i dubbi crescono e l’ansia di informazione cresce.
Innanzitutto, mi chiedo come si stiano muovendo gli altri paesi. Pochi minuti e scopro che per esempio California (2010) e Gran Bretagna (2015) hanno introdotto per legge divieto di sfruttamento del lavoro forzoso lungo le filiere di fornitura; l’Islanda (2017) ha introdotto l’obbligo di non discriminazione nei compensi; la Francia (2017) ha adottato la legge sul “devoir du vigilance” sui fornitori e altri paesi stanno adottando legislazioni ad hoc su aspetti specifici della sostenibilità e responsabilità sociale (Svizzera, Olanda, Germania).
E l’Italia? Il punto di riferimento per un Amministratore è la legge sulle responsabilità amministrative delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (2001). Seguire l’evoluzione di questa norma non è facile perché viene modificata con frequenza (estensione dei reati coperti, modifiche nel sistema sanzionatorio, e così via). Abbiamo quindi la norma che disciplina la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e ha il merito di imporre la predisposizione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) a tutte le società in Italia e alle Sedi Diplomatiche Italiane all’estero. Sarebbe interessante estendere l’obbligo di predisporre il DVR anche per altri rischi (sociali, ambientali). Altre norme specifiche non mancano.
Ma come può un Amministratore, districarsi tra norme, regolamenti e marchi internazionali (da quelle sui rischi ambientali alla trasparenza delle informazioni sulle etichette dei prodotti alla loro sicurezza) non sempre raccordate tra loro e in costante evoluzione?
Nel nostro gruppo la definizione e l’aggiornamento continuo spetta al Board, ma sono sufficienti il tempo e le competenze per valutare le informazioni in arrivo dal management? Mi sono sempre fidato dei CSR managers e dei compliance managers ma forse dovrei saperne di più anch’io.
Ci sono documenti di riferimento internazionali che possono aiutare la nostra società a definire e valutare l’affidabilità e la consistenza dei sistemi di valutazione dei profili ESG?
Nelle mie ricerche notturne prendo conoscenza con la norma ISO 26000 e le linee guida OCSE.
L’ISO ha redatto la norma “ISO 26000 Guidance on Social Responsibility” (2010) che fornisce una guida per trasformare i principi in azioni concrete che interessano tutti gli aspetti della responsabilità sociale: diritti umani, condizioni di lavoro, salute e sicurezza, ambiente e corrette pratiche commerciali. La ISO 26000 si applica a tutti i tipi di organizzazione indipendentemente dalla attività, dimensione o localizzazione.
L’OCSE è impegnato da anni a produrre linee guida indirizzate in primo luogo ai Governi per armonizzare l’approccio normativo sui temi della Responsible Business Conduct con un accento particolare alla valutazione dei rischi lungo le filiere di fornitura.
Nel 2011 l’OCSE ha pubblicato le “Guidelines for multinational enterprises” con lo scopo di “…valorizzare il contributo apportato allo sviluppo sostenibile”. Queste linee guida raccomandano alle imprese di attuare la Due Diligence con un approccio basato sul rischio, al fine di evitare gli impatti negativi legati alle proprie attività, alle catene di fornitura e alle altre relazioni commerciali.
Piu recentemente (2018) l’OCSE ha pubblicato la “Due Diligence Guidance for Responsible Business Conduct (RBC)” con l’obiettivo di promuovere una visione comune presso i Governi e le parti interessate (stakeholders) circa il dovere di diligenza per la condotta d’impresa responsabile, fornendo una serie di raccomandazioni rivolte alle imprese per aiutarle nell’implementazione.
La linea guida OCSE “generale” è collegata con alcune guide OCSE settoriali sul dovere di diligenza per le catene di fornitura di alcuni settori (minerali estratti in regioni di conflitto, prodotti agricoli, abbigliamento e calzature) e documenti sulle buone pratiche per i settori estrattivo e finanziario.
Queste guide riguardano ambiti quali diritti umani, occupazione e relazioni industriali, ambiente, lotta all’istigazione alla corruzione e alla concussione, interessi del consumatore, divulgazione di informazioni e sono in linea con l’insieme di informazioni da inserire nella DNF (Direttiva 2014/95).
Il dovere di diligenza riguarda “ Ogni tipo di rapporto commerciale dell’impresa – fornitori, concessionari in contratto di franchising, licenziatari, joint venture, investitori, clienti, appaltatori, acquirenti, consulenti, consulenti finanziari, legali e di altro tipo e ogni altra entità non statale o statale collegata alle sue attività commerciali, ai suoi prodotti o servizi ”
Gli aspetti qualificanti delle Linee Guida OCSE sono due: il focus sulla valutazione delle filiere di fornitura e l’orientamento alla valutazione del rischio. “Le misure che un’impresa intraprende per attuare il dovere di diligenza dovranno essere commisurate alla gravità e alla probabilità dell’impatto negativo. Quando la probabilità e la gravità di un impatto negativo sono elevate, il dovere di diligenza dovrà assumere una scala più ampia. Il dovere di diligenza dovrà adattarsi alla natura dell’impatto negativo nelle tematiche RBC, quali i diritti umani, l’ambiente e la corruzione…”.
Molto bene! Esistono documenti internazionali (ISO 26000 e Linee Guida OCSE) che coprono gli aspetti richiesti dalla Direttiva 2014/95 e li presenta nella prospettiva della valutazione del rischio. Per di più questi documenti sono raccordati tra loro. Sono documenti essenziali per preparare e valutare se la DNF soddisfa i requisiti della Direttiva 2014/95.
Sono certificabili? Purtroppo no, non mi pare sensato pensare che un’attestazione di conformità a una specifica consenta di valutare in modo quantitativo un livello di rischio su principi e raccomandazioni.
Con la luce del mattino anche le mie idee cominciano a schiarirsi.
E in Europa? Una breve ricerca mostra come l’Unione Europea abbia avviato da tempo (inizio anni 2000) una strategia in ambito di responsabilità sociale intrecciata più volte con il lavoro dell’OCSE.
Le radici della strategia dell’UE in materia di sostenibilità e responsabilità sociale affondano nel Trattato di Lisbona (2000) a cui ha fatto seguito il Libro Verde e quindi la risoluzione del Consiglio nel 2003. A distanza di 10 anni esatti il Parlamento UE ha approvato (2013) un atto che ha rilanciato l’iniziativa comunitaria nel campo della CSR sollecitando la Commissione EU a predisporre misure specifiche per contrastare qualsiasi informazione ingannevole o falsa da parte delle imprese in relazione alla strategie e pratiche in ambito CSR con particolare attenzione alle informazioni relative agli impatti sociali e ambientali dei prodotti e servizi, in aggiunta a quelle fornite ai sensi della Direttiva sulle Scorrette Pratiche Commerciali con una particolare attenzione ai reclami.<